Retina, primo impianto con microchip wireless realizzato in Italia

E’ stato effettuato nei giorni scorsi il primo impianto di microchip a livello retinico su un paziente di 91 anni, affetto da maculopatia atrofica in stadio terminale. Una notizia accolta con grande entusiasmo da parte delle tante persone che, soffrendo di patologie retiniche, come le maculopatie, arrivano a una grave ipovisione se non addirittura alla cecità, perdendo la visione centrale. Ne abbiamo parlato col dottor Alessandro Cenatiempo.

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Alessandro Cenatiempo

E’ stato effettuato nei giorni scorsi il primo impianto di microchip a livello retinico su un paziente di 91 anni, affetto da maculopatia atrofica in stadio terminale. L’intervento è stato eseguito da Marco Pileri, responsabile della chirurgia vitreoretinica dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata di Roma, nell’ambito del progetto internazionale PRIMAvera. Una notizia accolta ovviamente con grande entusiasmo da parte delle tante persone che, soffrendo di patologie retiniche, come le maculopatie, arrivano a una grave ipovisione se non addirittura alla cecità, perdendo la visione centrale. Ed è tanta la speranza che possa essere l’inizio di una nuova fase in cui la medicina sia capace di restituire a tali pazienti una vita normale attraverso una ritrovata capacità visiva. Ne abbiamo parlato con il dottor Alessandro Cenatiempo, Primario Oculista Ausl MO (Ospedali di Carpi – Mirandola e Casa della Salute di Castelfranco Emilia).

Dottore in cosa consiste l’impianto del chip avvenuto in questi giorni a Roma? 

“Fa bene a parlare di microchip e non di retina artificiale. Si tratta infatti di un microchip che permette di trasdurre il segnale luminoso ed inviarlo come impulso elettrico alla corteccia visiva. Non è la prima volta che si impiantano chip a livello retinico, ma ora ci si trova di fronte ad una vera e propria svolta, determinata dalla miniaturizzazione e dalla tecnologia wireless. I precedenti impianti risultavano molto complessi per le dimensioni relativamente grandi dei chip e per il collegamento con telecamera e computer attraverso microcavi. Tutto questo rendeva questi dispositivi complessi nell’impianto (con rischio infettivo piuttosto alto) e non molto performanti e comodi per il paziente.

Impiantare un piccolo chip (circa 30 micron) e fare in modo che questo si colleghi senza fili a una telecamera e a un computerino tascabile, elementi che rendono possibile la trasduzione del segnale luminoso in segnale elettrico portandolo alla corteccia  visiva, ha fatto fare a questo tipo di impianto un grande passo in avanti ed in futuro non si può che migliorare. Il progresso rapido e continuo del digitale e della micro-elettronica sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti noi”.

Questo microchip consente dunque al paziente di recuperare la capacità visiva?

“Attualmente tale impianto non consente di recuperare una visione vera e propria, ma permette al paziente di orientarsi nell’ambiente circostante, distinguendo contorni, luci ed ombre e (almeno così si sostiene) alcune lettere”.

Sempre con l’obiettivo di contrastare la degenerazione della retina è in fase di sperimentazione la cosiddetta retina artificiale liquida. Di cosa si tratta?

“Presso l’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona) e presso l’Ospedale Policlinico San Martino di Genova si sta sperimentando l’impiego di nanoparticelle (retina artificiale liquida) mediante la loro iniezione intraretinica in pazienti affetti da stadi avanzati di retinite pigmentosa. I primi risultati sono molto incoraggianti e i colleghi sono profondamente motivati nel percorrere questa strada. In questo caso è corretto parlare di retina artificiale liquida, dal momento che è composta da una componente acquosa nella quale sono sospese nanoparticelle polimeriche fotoattive che prendono il posto dei fotorecettori danneggiati. Gli studi di queste nanoparticelle fotoattive hanno permesso di poter prospettare un loro utilizzo in patologie degenerative di tutta la retina (retinite pigmentosa) o localizzate in area centrale (maculopatia degenerativa). Il tutto tramite un procedimento iniettivo sicuramente meno invasivo rispetto all’impianto di microchip e senza la necessità di telecamera e trasduttore computerizzato del segnale. Un’ulteriore strada che si sta percorrendo, presso l’Unità Oculistica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, è quella delle terapia genica. Queste equipe agli inizi di agosto hanno iniettato, con un’unica somministrazione, e nello spazio sotto retinico di entrambi gli occhi, una copia funzionante del gene Rpe65.

Le iniezioni sono state effettuate in un bambino di 8 anni e nella sorellina di 3 anni, entrambi affetti da amaurosi congenita di Leber. Si tratta di una distrofia retinica ereditaria da paragonarsi ad una forma precoce e grave della più nota retinite pigmentosa. Questa terapia è stata sviluppata dalla Novartis ed è stata riconosciuta dall’AIFA nel 2021: il farmaco si chiama Voretigene Neparvovec. I risultati sono molto incoraggianti e i bambini si orientano bene anche in ambienti poco illuminati”.

Passi avanti importantissimi ma quando sarà possibile eseguire simili interventi su larga scala?

“I progressi nella lotta alla cecità sono sempre più promettenti, ma quello che deve essere alla base di qualsiasi terapia sono appropriatezza e sostenibilità. Queste terapie devono essere in grado di garantire al paziente un’ adeguata indipendenza per un suo buon reintegro nel tessuto sociale e lavorativo e devono essere sostenibili economicamente per il nostro Sistema Sanitario Nazionale. Qualsiasi terapia di cecità o ipovisione grave validamente testata e della quale si riconosce l’efficacia deve poter essere economicamente accessibile a tutti”.

Federica Boccaletti