“Io non ho mai piegato la testa”

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“Mi hanno dato del fascista quando indagavo sulle Brigate Rosse, del comunista quando mi sono occupato di mafia, per poi tornare fascista quando mi sono interessato all’ala violenta del movimento No Tav. In quel periodo poi, sui muri di Torino, erano apparse frasi che mi indicavano persino come mafioso, proprio io, che in sette anni a Palermo, ho fatto condannare i mafiosi veri per 650 ergastoli… mi mancava solo che mi dessero dello juventino”. L’ha raccontata così, non senza una certa dose di autoironia, la sua vita, Gian Carlo Caselli, ospite, lo scorso 22 settembre, della rassegna carpigiana Ne vale la pena. L’occasione è stata fornita dalla presentazione di Nient’altro che la verità, la biografia scritta dal magistrato piemontese insieme a Mario Lancisi. E sono numerosi, i fatti e gli episodi che hanno costellato la carriera di Caselli: da quando, dal 1967, assegnato al Tribunale di Torino, si trova a occuparsi di terrorismo rosso e stragismo nero, sino alla decisione, all’indomani delle stragi che causarono la morte di Falcone e Borsellino, di fare domanda per il seggio di Procuratore a Palermo, conseguendo, proprio nel capoluogo siciliano, straordinari risultati investigativi, tra cui l’arresto di mafiosi del calibro di Leoluca Bagarella, Gaspare Spatuzza e Giovanni Brusca. “Ricordo – ha raccontato il magistrato, dialogando con Pierluigi Senatore – i primi due, tre anni dopo le stragi, come un momento di straordinaria mobilitazione dei cittadini e di compattezza della politica: seppe approvare il 41 bis – il cosiddetto carcere duro – per i mafiosi e la legge sui pentiti”. Ma si trattò, di un’eccezione alla regola: “nel nostro Paese esistono alcuni problemi di difficile soluzione che la politica sarebbe chiamata ad affrontare, ma che preferisce delegare alle Forze dell’Ordine e alla Magistratura. Non è un caso, per esempio, che la nostra legislazione antimafia sia sempre del giorno dopo, imposta di forza a seguito di gravi fatti di sangue. Oppure considerate la vicenda dell’Ilva di Taranto, in cui è stata lasciata a un giudice, a causa dell’insipienza del legislatore, la terribile decisione tra il diritto al lavoro e quello alla salute. La delega non è tuttavia completa: c’è sempre un’asticella, mai esplicitamente dichiarata, un confine che l’inquirente non può attraversare, dei livelli di potere che non possono essere messi in questione, come successe a Falcone: quando si interessò dei legami tra mafia e politica fu sabotato in tutti i modi possibili”. E di ostacoli, anche Caselli ne sa qualcosa, dal momento che il suo è stato il primo caso di norma ‘contra personam’ della storia legislativa italiana. Nel 2005, mentre era in corsa per la guida della Procura nazionale antimafia, un emendamento lo estromise, introducendo il criterio del limite d’età, favorendo così la vittoria di Piero Grasso. “In quel caso mi fu fatto pagare il processo Andreotti, ne sono sicuro. E questo mi amareggia ancora. Sebbene ciò rappresenti al contempo il segno che non ho mai chinato la testa, neppure davanti a una persona che ha ricoperto per sette volte l’incarico di Presidente del Consiglio”. Rispetto, poi, alla diffusa carenza di legalità presente in Italia, Caselli è chiaro: “quando si parla di regole si avverte una sensazione di fastidio, come se rispettarle fosse un limite alla libertà personale. Ma è un pensiero sbagliato: la legalità conviene”. E come dargli torto, nel Paese in cui ogni anno il malaffare costa, tra proventi di mafie, evasione e corruzione, circa 335 miliardi di euro, denari che potrebbero essere invece destinati, tra le altre cose, a istruzione, sanità e ricerca? “Attenzione però, la legalità non è una questione di guardie e ladri, con i cittadini comodamente appoggiati al davanzale della finestra per fare il tifo e assistere a chi dei due la spunterà. Occorre partecipare, è necessario comprendere come senza regole la partita sia inevitabilmente truccata a vantaggio dei soliti noti, ovvero coloro che non hanno alcun bisogno delle regole. La legalità è il potere di chi non lo possiede; è il nostro potere ed è questo che bisogna insegnare ai giovani”.
Marcello Marchesini

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