Il cibo, si sa, è cultura e per Chiara Papotti, 26enne carpigiana, la cucina è un’eredità di famiglia.
Da dove nasce questo tuo grande interesse?
“L’amore per la cucina mi è stato tramandato dalla famiglia. Da generazioni il cibo è il principale interesse di casa. Da mio nonno Bruno ho imparato i segreti della pasticceria, da mia nonna Silvana l’arte della pasta fresca e i primi piatti. I miei genitori, poi, mi hanno trasmesso l’interesse per la trasformazione e la preparazione delle carni”.
C’è spazio, in questa passione per la buona tavola, per un’analoga attenzione alla corretta alimentazione?
“Certo. I miei studi in Scienze Gastronomiche alla facoltà di Scienze degli Alimenti di Parma mi hanno permesso di coniugare il piacere della tavola con l’adozione di un corretto stile alimentare. Uno dei corsi più interessanti che ho frequentato è stato infatti quello sugli “alimenti funzionali per la promozione della salute”, in cui si è trattato il tema dei cibi che possono aiutare a prevenire malattie cardiovascolari, sovrappeso e obesità, diabete, intolleranze alimentari e celiachia”.
Qual è la cosa più importante che hai imparato nel corso dei tuoi studi?
“Ho avuto la fortuna di frequentare le lezioni di Massimo Montanari, ritenuto, a livello internazionale, uno dei maggiori studiosi di storia dell’alimentazione. Il cibo è cultura: quando si produce, perché l’uomo non utilizza solo ciò che trova in natura come fanno le altre specie animali; quando si prepara, poiché l’uomo trasforma la materia prima mediante le pratiche di cucina e quando si consuma, perché l’uomo, pur essendo onnivoro, sceglie cosa mangiare, con criteri legati alla dimensione economica, nutrizionale e simbolica. Spesso le nuove generazioni adottano stili alimentari ormai conformati e tendono a prendere le distanze da tradizioni, rituali e consuetudini culinarie che affondano le radici nella storia locale. Recuperare i sapori antichi e avere la capacità di rinnovarli nel gusto contemporaneo è il principale meccanismo di trasmissione dei fenomeni di natura culturale. Educare all’alimentazione, quindi, non significa soltanto rimarcare il tema della salute, ma anche insistere sul fattore culturale del cibo. D’altronde l’organo del gusto non è la lingua, ma il cervello, un organo culturalmente determinato”.
Come definiresti i nostri piatti tipici emiliani?
“La cucina emiliana è di per sé povera. Molti piatti che oggi lodiamo sono il frutto di una civiltà contadina”.
Com’è nata l’idea di Carpifood, il tuo blog legato alla storia gastronomica locale?
“Dall’esigenza di raccontare e riscoprire la tradizione culinaria della mia città. Esiste un legame forte tra quello che mangiamo e lo stato d’animo che ne deriva; da ciò la consapevolezza di voler conoscere non solo il valore nutritivo dei cibi ma anche l’emozione e la storia che mettiamo nel piatto. In questo senso gusto e tradizione rappresentano gli elementi su cui si fonda il tema della memoria storica. Ho deciso di aprire questo blog quando ho letto un rapporto sui dati della ripresa in Emilia Romagna riguardanti l’export, dai quali è emerso come la nostra Regione sia la locomotiva d’Italia, con tutte le aree di distretto caratterizzate da risultati positivi, a eccezione dell’abbigliamento di Carpi (-10%) e delle calzature di Ravenna (-14,8). In quel momento ho maturato la consapevolezza che la mia amata città aveva altro da raccontare oltre alla maglieria e di come la tradizione culinaria fosse sicuramente da valorizzare”.
Hai già qualche storia o una curiosità da raccontare ai lettori di Tempo?
“La prima risale al 1584. In un opera di Giovan Battista Rossetti intitolata Dello Scalco si parla di Carpi come città dei meloni. Rossetti era fortemente legato alla dimensione gastronomica lombardo-emiliana e nel suo libro di scalcheria cita tantissime città della via Emilia, da Piacenza a Parma, da Reggio a Modena e Bologna. Nel volume si sofferma sulle specialità gastronomiche di Sassuolo (uva secca), di Scandiano (torta di fagioli), di Correggio (gnocchetti al cedro), di Mirandola (spalle di montone) e di Carpi (i meloni). Il tema del prossimo articolo, che svelo a voi in anteprima, tratterà della Soppressata di Carpi. L’antica ricetta ottocentesca è stata ritrovata in un manuale di cucina della famiglia Foresti e verrà riprodotta da un gruppo di appassionati”.
Che cosa pensi dei fast food?
“L’idea di base è quella di puntare alla qualità. Come ci suggerisce il nome, il “fast food” è un luogo in cui si cucina e si consuma velocemente, ma questo non deve andare a discapito della qualità. Fondamentale è la scelta della materia prima: cucinare piatti veloci non implica scegliere ingredienti di scarsa qualità”.
Pensi che il consumismo legato al cibo ne squalifichi l’importanza?
“L’abbondanza, caratteristica della società moderna, ci pone davanti a nuovi problemi di difficile soluzione. Le malattie da eccesso alimentare hanno via via sostituito quelle da carenza. In Italia si calcola che circa 1 bambino su 4 soffra di obesità, un problema che sta assumendo sempre più la forma di un’emergenza sociale. Bisogna sottolineare come la crisi economica incida sulle patologie infantili non solo per l’eccesso dei consumi ma anche per la rinuncia alla qualità: se le mamme non riescono ad arrivare a fine mese, allora compreranno prodotti scadenti. In questo senso il tema dell’educazione alimentare è fondamentale: i bambini vanno educati a mangiare sano, a fare sport e movimento in generale, soprattutto all’aria aperta”.
A tavola con o senza televisione?
“Assolutamente senza. Mangiare insieme costituisce un potente strumento di socialità, un rito per celebrare eventi e rafforzare legami. Il nostro è un tempo povero di relazioni e il moltiplicarsi delle occasioni di contatto, anche attraverso le nuove tecnologie, coincide con la superficialità dei rapporti. Il tema della condivisione del pasto mi è molto caro e gli ho dedicato gran parte dei miei studi accademici”.
Il tuo piatto preferito?
“Non ne ho uno in particolare, amo la cucina povera e contadina. Da vera emiliana non posso rinunciare al maiale, in ogni sua forma; amo anche il riso, perché mia nonna, da mondina quale era, mi ha cresciuta con risotti alle ortiche, alla zucca, allo scalogno e ai funghi. Quando posso mi dedico alla preparazione di cappelletti, tortelli, tagliatelle e passatelli”.
Dunque sai anche cucinare?
“Ho imparato a 10 anni, per necessità. I miei genitori lavoravano fino a tardi e la sera ero abituata a stare sola in casa, perché allora abitavo sopra il negozio di famiglia. Così un giorno, presa dai morsi della fame, mi sono messa ai fornelli e ho preparato il mio primo uovo sbattuto. Da quel giorno non ho mai smesso”.
Mangiamo molta carne, forse troppa, ma molti di noi hanno perso il contatto con gli animali. Trovi che ci sia qualcosa da modificare nel nostro modo di pensare la filiera alimentare?
“In pochi sanno che, nonostante il processo di demonizzazione in corso ormai da anni, la filiera della carne è la più virtuosa. La produzione e il consumo di carne, infatti, generano una quantità di scarti e rifiuti più che dimezzata rispetto a frutta e verdura, e pari quasi alla metà dei rifiuti prodotti dalla filiera dei cereali. L’uso etico, cioè il prendersi la responsabilità di usare al meglio quello che la terra ci offre riducendo al minimo gli sprechi, farà ritrovare la via giusta per l’umanità oggi divisa tra chi spreca e chi soffre la fame”.
Amare la gastronomia non significa, in fondo, amare anche il territorio dove questa nasce e affonda le radici?
“Rispettare il territorio significa puntare alla prossimità, cioè scegliere materie prime locali. Il cibo che viaggia è produttore di costi occulti e inquinamento derivanti dai processi di distribuzione. C’e poi il tema della stagionalità, che ci consente di consumare prodotti agricoli di stagione. Il consumatore è sempre più consapevole del fatto che l’impatto ambientale di un alimento non è imputabile soltanto alla produzione a monte, ma anche al suo comportamento”.
Quali progetti per il futuro, oltre al blog?
“Il primo riguarda la mia tesi di laurea, che tratta il tema della “macelleria dinamica” prendendo come caso studio Dario Cecchini, il macellaio-poeta di Panzano in Chianti, icona della macelleria nel mondo. Con lui ho avviato una collaborazione per fare della mia tesi un libro, che tradurrò anche in inglese e sarà presto in vendita. Sempre a Panzano il “paladino della bistecca alla fiorentina” aprirà una scuola di macelleria e sarò impegnata nel dare lezioni agli aspiranti macellai sull’evoluzione e le nuove tendenze che interessano gli artigiani delle carni. Il 2015 è anche l’anno dell’Expo di Milano e con l’associazione di volontariato Butchers for Children saremo di nuovo impegnati nell’organizzazione di una grande festa che avrà l’obiettivo di raccogliere fondi per gli ospedali pediatrici”.
Marcello Marchesini