Raccontare il Campovolo 2.0 agli assenti è come governare gli italiani: non semplicemente difficile, bensì inutile. E trasporlo in parole a chi c’era è esercizio definitivamente impossibile. Tanto premesso, potete concludere immediatamente che le prossime righe non avranno senso. Tutto ha un limite, ma la vergogna no: dunque proverò a liofilizzare 3 ore di iperuranio, 120.000 cuori in extrasistole e 200mila watt illegali in 5 aggettivi. Altri non ne trovo nel retrobottega dello stomaco. Un po’ perché la mia conoscenza della lingua italiana è troppo minuscola rispetto alle emozioni ciclopiche che ho vissuto. Ma soprattutto perché l’inventore della birra ha le sue belle responsabilità… VERTEBRALE. Ovvero una questione di ossa, nervi e midollo. Tutto e solo ciò che trasforma lo stimolo in movimento. Così, oltre a tutto il resto, è definibile la scaletta: colonna sonora ed altresì spinale della carriera e del percorso. L’atlante è Questa è la mia vita. La cervicale è Un colpo all’anima. L’ultima lombare è Il meglio deve ancora venire (Tacabanda faccio finta di non averla sentita). Ovverosia, il Liga parte da una dichiarazione d’intenti: vi racconto me, perché voglio sentire voi. E chiude con l’unica morale che ritiene possibile: più di tutto può solo la speranza. Nel mezzo c’è il suo caleidoscopio di valori ed esperienze. Articolatesi nella staffetta delle tre orchestre che lo hanno accompagnato fin qui: i pionieri Clandestino, artigiani della sperimentazione d’armoniche dure, ruvide, grezze, ma gentili (violentemente inattese, Anime in plexiglass e I duri hanno due cuori sorprendono e stordiscono ancora); poi la Banda, espressione della deriva più commerciale: una svolta consacrante, travolgente, benché non del tutto compiuta (Certe notti sfonda comunque il conta-decibel); infine la Band attuale, tre piste avanti alle altre per definizione del suono e prepotenza ritmica. Che schianta l’apertura, sigilla la chiusura, e certifica il mestiere che Luciano ha insidacabilmente deciso di fare da grande: rock al lambrusco, ma senza ulteriori compromessi. MOSTRUOSO. Per dimensioni e impatto. Vale il criterio di diretta proporzionalità tra misura e sentimento: “Niente di grande è mai stato fatto al mondo al mondo senza il contributo della passione”. Lo ha stabilito Hegel: uno più razionale della ragione e più realista del re. Evidentemente è passato per il Campovolo in una stagione parallela al suo idealismo senz’anima. E ivi avrà senz’altro incontrato “il mostro”. Simbolo del concerto (un pesce deforme dirigibile), e ultima trovata retorica che intitola il più recente album del Liga. E’ la metafora delle grandi angosce che portiamo dentro. Si vive per liberarsene. Ben sapendo che ogni loro ritorno è uno shock devastante, ma non meno che florido: produce dissesti, ma allo stesso tempo ispira le più grandi creatività. TRASVERSALE. Così è il pubblico, simbiotico protagonista. Non ha un’età media, né discrimina posizioni sociali. Si muove all’unisono, scatenandosi con compostezza. E così è la semantica del Liga: temi, dolori, rilanci, riflessioni e personaggi privi d’elite che nascono in punta di plettro, con l’intenzione di farsi riconoscere. E diventano per forza le storie di tutti. ESATTO. Come la nemesi dei vinti che non dimenticano, e tornano sul teatro di battaglia per ottenere la riscossa. Campovolo 2.0 è anche il trionfo dei dettagli tecnici e logistici. Dunque il pieno riscatto del primo round (2005), tradito da un’acustica carogna e da una banda di ladri. “Liga, hai chiuso casa?”: tra tutti gli striscioni sventolati, questo e non altri merita il voto più alto. BRUTTISSIMO. Perché purtroppo è finito.
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