Uno dei tanti problemi radicati nella nostra società è la tendenza a trasformare la realtà, persino ciò che non conosciamo bene o per nulla, in opinione. Quest’ultima non sarebbe un grosso problema se non fosse prevalentemente basata su stereotipi, luoghi comuni, fake news e “sentito dire”, senza approfondimenti da più fonti comprovate e confronti di alcun tipo.
La recente inclinazione a smentire o a sminuire ciò che viene espresso in modo competente ed altamente qualificato da parte di esperti del settore medico-scientifico, è un enorme problema sociale, oltre che culturale. Quel senso di totale diffidenza che si è andato a formare, nel corso degli anni, nei confronti di una categoria (senza escluderne, purtroppo, tante altre) che fino a pochi decenni fa era del tutto rispettata e verso la quale i cittadini si affidavano ad occhi chiusi, ha radici che ben si coniugano con l’ingente povertà educativa, politica ed economica del nostro Paese. Naturalmente, al senso di diffidenza si accompagna una personale presa di posizione inamovibile, incontaminata, autonoma, da difendere a spada tratta in nome della “libertà di pensiero” fondata su convinzioni proprie non dimostrate scientificamente (un esempio tangibile sono i negazionisti e i movimenti NoVax).
Inoltre, i ritmi lavorativi incalzanti e la velocità di trasmissione delle informazioni che contraddistinguono il frettoloso mondo post-moderno (reale e virtuale) fanno sì che la nostra mente, attraverso un principio di adattamento e di economicità cognitiva, scelga la via più semplice e meno faticosa, quella, apparentemente, più “efficiente”. Il risultato di tale processo è limitarsi ad acquisire pochissimi dati da un’infinita mole di notizie, dando vita, se non a confusione mentale, certamente ad opinioni affrettate ed inconsistenti che vengono espresse con forza.
Esiste, sin dai lontani anni ’70 del secolo scorso, un numero ampissimo di studi e dati scientifici sulla crisi climatica e la distruzione degli ecosistemi. Eppure, l’attuale sistema socioeconomico neoliberista, oltre agli stessi cittadini, continua a farne una questione di parere personale, seminando indifferenza e dubbio su ciò che sta accadendo. È più importante salvaguardare il profitto, il consumismo senza tregua, lo sfruttamento di risorse e lavoratori, la nostra comodità e i nostri lussi.
I talk show televisivi, poi, sono l’apoteosi dell’opinionismo di massa, dove uno vale uno (cosa apparentemente democratica, se non fosse che non tiene minimamente conto delle differenze di preparazione, di competenze, di studi, di ricerche e di ruoli). L’impoverimento della politica (e della scienza) deriva anche dalla partecipazione di capi di partito, senatori, deputati, consiglieri comunali, scienziati, medici, etc. a trasmissioni televisive ad esclusivo scopo di intrattenimento e di propaganda, dove difficilmente vengono rispettati i turni di conversazione, dove difficilmente si instaura un clima pacifico e di confronto costruttivo, dove difficilmente si guadagnano una buona reputazione e una ferma fiducia da parte degli uditori. In questi contesti, tutto finisce per essere discutibile e messo al vaglio della verità.
Soprattutto i social network, in seguito, cavalcando la medesima onda, hanno esaltato ed ingigantito fortemente tale andamento, rendendolo accessibile a chiunque (idioti compresi, per dirla alla Umberto Eco): le chiacchiere da bar e i relativi commenti superficiali su questioni sociali, politiche ed economiche sono stati resi pubblici e messi per iscritto, acquisendo così una certa rilevanza e solidità che prima non avevano.
Realtà, quelle elencate pocanzi, che certamente non facilitano le persone a nutrire stima e riverenza nei confronti di chi è esperto in un dato settore. In aggiunta, tale modus operandi, incitato dai mass media, si trasforma in modello da seguire a propria volta, nella routine di tutti i giorni, quando ci si ritrova a dover discutere di un tema qualsiasi: parlare senza ascoltare, sostenere posizioni “di pancia” rispetto a campi del sapere che nemmeno si conoscono, chiudersi rigidamente nel proprio punto di vista escludendo tutti gli altri.
Creare nuovi spazi di incontro, di ascolto empatico e di espressione delle idee diventa allora necessario al fine di formare una comunità abile, umile ed autocosciente. Ma per fare ciò occorre partire dalle scuole e dalle università, potenziando e favorendo l’istruzione: improntarla al pensiero critico e al rispetto reciproco, all’analisi attenta delle fonti che convalidino le proprie e le altrui tesi, alla momentanea sospensione del giudizio in merito a quei casi che richiedono ulteriori approfondimenti, alla scelta accurata delle parole da usare, alla valorizzazione del sapere degli esperti che hanno dedicato la propria vita allo studio di una determinata disciplina, alla modestia. L’attenzione non superficiale sul funzionamento dei mass media e dei social media dovrebbe essere poi centrale, da parte delle scuole, poiché nell’epoca contemporanea le idee non nascono più dall’esperienza ma sono ridotte a mere opinioni. Essi sono formatori di mentalità delle persone che stanno alla base del loro comportamento.
Inoltre, occorrerebbe finanziare i Comuni di ogni città per promuovere corsi di formazione dedicati a temi caldi ed attuali, tenuti da studiosi, ad accesso gratuito ed aperti alla cittadinanza, con lo scopo di informare ed educare correttamente (come già il Comune di Carpi si sforza di fare – es. Festival della Filosofia, Festa del Racconto ed altri eventi culturali – ma non a sufficienza). Oltre alle conferenze e ai seminari, la creazione di gruppi di lavoro (workshop) favorirebbe, in aggiunta, la partecipazione attiva e il senso di comunità.
Infine, aumentare i fondi destinati alla ricerca in Italia (direi quadruplicare, considerato il nostro triste posizionamento rispetto agli altri paesi d’Europa) permetterebbe di riconquistare la credibilità e l’autorevolezza della scienza agli occhi dell’opinione pubblica.
Alessia Goldoni
Psicologa e Sociologa