Da Correggio al San Vittore di Milano per raccontare la città carcere

S’intitola Una guida impossibile di San Vittore: un racconto sulla città-carcere la tesi di laurea magistrale in Interior & Space Design scritta da Camilla Marani, correggese classe 1997, che racconta, umanizzandola, una realtà sconosciuta per quella che è veramente.

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Camilla Marani

Per cinque mesi, due volte alla settimana, Camilla Marani, classe 1997, progettista interdisciplinare specializzata in grafica e allestimenti, è entrata nel penitenziario San Vittore di Milano, per lavorare alla sua tesi di laurea in Interior & Space Design al Politecnico di Milano nell’ambito del gruppo di ricerca Laboratorio Carcere del Politecnico di Milano, con l’obiettivo di raccontare attraverso un approccio multidisciplinare, scientifico ed auto-etnografico, il funzionamento della vita quotidiana della Casa Circondariale di San Vittore di Milano.

Cosa ha rappresentato per te questa esperienza?

“Il mio interesse per il mondo degli istituti penitenziari nasce molto tempo fa, ma è diventato di maggiore rilievo nel 2023 quando, durante un evento di Zerocalcare, Luigi Manconi e Luca Misculin a Festivaletteratura, mi sono scontrata con dati disumani sulla situazione carceraria italiana d’oggi, dove si è circondati da cronache di suicidi tra detenuti e polizia penitenziaria, di dati ai massimi storici per il sovraffollamento e la qualità degli spazi, totalmente fuori norma. L’urgenza di vedere un cambiamento mi ha investito di una responsabilità personale e professionale che mi ha portata ad approfondire dubbi e incognite che non si riescono a capire da soli, facendomi intraprendere un viaggio di lunghe attese, nuovi incontri, racconti ed esperienze con gli spazi detentivi di San Vittore e i detenuti del Settore Giovani Adulti. Sono entrata nel gruppo di ricerca di Off Campus San Vittore del Politecnico di Milano grazie all’incontro con professoresse e dottorande che, in uno spazio all’interno della Casa Circondariale di Milano, dal 2022 fanno attività con l’area educativa del carcere”.

Come è nata la metafora del carcere come città?

“È nata vivendo due giorni alla settimana per cinque mesi dentro e fuori dalle mura del carcere, conoscendo le persone che la abitano, parlando con i vari enti che lavorano e transitano all’interno e facendo esperienza degli spazi. In questo modo si è formata la mia domanda di ricerca: ‘in mancanza di aiuti istituzionali come si può ricostruire un immaginario corrotto, proporre una nuova narrativa e riconnettere il carcere alla città?’ e si sono definiti gli obiettivi della ricerca: demistificare il soggetto e cambiare e trasformare l’immaginario collettivo corrotto che si è formato con gli anni; raccontare e umanizzare una realtà sconosciuta per quella che è veramente, sì complessa, contraddittoria e delicata ma anche simile alle dinamiche sociali esterne in diversa scala; creare dei ponti e delle connessioni tra la città e il carcere, che rimane un servizio creato dalla nostra società e per la nostra società. La metafora del tessuto urbano è stata utilizzata per analizzare l’istituto penitenziario da intendersi come una città, con i suoi luoghi, le sue dinamiche e i suoi abitanti, ovvero tutti i soggetti che per qualche motivo transitano dentro le sue mura. I raggi formano i quartieri, i piani dei raggi i suoi palazzi, le celle gli appartamenti. Il richiamo all’immaginario urbano ha consentito l’adozione di uno stile narrativo più accessibile, utilizzando un linguaggio che si muove tra l’ironico e il romanzato, tipico dei manuali per esploratori”.

È un progetto concluso o aperto a nuovi sviluppi?

“Il progetto è nato in San Vittore ma vorrebbe espandersi e proporre un’analisi di tutti i diversi istituti penitenziari italiani e non per costruire una collana di libri che raccontano del funzionamento delle carceri, dei loro abitanti, dando una voce e una prospettiva interna. Questo metodo narrativo e illustrativo funziona come ponte, connettore della società al servizio carcere, ricostruendo un dialogo aperto per contrastare gli enormi problemi che sono nati dal distacco e dal disinteresse totale nei suoi confronti. Il tutto con un pizzico di ironia, che rimane il filo conduttore di tutta la ricerca e che permette di affrontare questo enorme tema con un briciolo di leggerezza. Un’ironia che, come insegnano molto detenuti che ho incontrato, serve per tenere alta l’asticella dell’umanità in un contesto dove manca. Con questa ricerca non c’è la pretesa di risolvere problemi che l’istituzione penitenziaria ha, ma piuttosto l’intento è quello di fare qualcosa dal basso, dunque raccontare, comunicare, rendere più trasparente alla popolazione civile cosa si cela dietro le grandi mura degli istituti penitenziari”.

Chiara Sorrentino