Lo spirito burlone del Carnevale, quando a Carpi si andava a unnser al spròoch

Piazza Martiri non si colorerà di allegria, carri, coriandoli e stelle filanti. Lo spirito burlone e frizzante del Carnevale non riempirà il centro storico di Carpi. La pandemia anche questo ha tolto ai più piccoli ma il timore è che il Carnevale, festa un tempo amatissima da tutti, continui a sbiadire e a finire nel dimenticatoio. Una cosa è certa anche nella nostra città, in un passato nemmeno troppo lontano, il Carnevale era protagonista e sono numerose le filastrocche, le tradizioni e le ricette che accompagnavano quel periodo giocoso, frizzante e spensierato. Giorni “libertini” e pazzerelli che conducevano sino alla Quaresima, quando le parole d’ordine erano invece digiuno e massimo rigore.

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1966 Festa di Carnevale all'ex Arlecchino in Piazza Foto di Mauro D'Orazi

Piazza Martiri per il secondo anno consecutivo non si colorerà di allegria, coriandoli e stelle filanti. Lo spirito burlone e frizzante del Carnevale non riempirà il centro storico di Carpi e i bimbi resteranno a bocca asciutta: niente carri su cui salire per lanciare caramelle e donare sorrisi a chi ammira la tradizionale sfilata. La pandemia anche questo ha tolto ai più piccoli ma il timore è che il Carnevale, festa un tempo amatissima da grandi e piccini, continui a sbiadire e a finire nel dimenticatoio. Una cosa è certa anche a Carpi, in un passato nemmeno troppo lontano, il Carnevale era protagonista e sono numerose le filastrocche, le tradizioni e le ricette che accompagnavano quel periodo giocoso, frizzante e spensierato. Giorni “libertini” e pazzerelli che conducevano sino alla Quaresima, quando le parole d’ordine erano invece digiuno e massimo rigore.

Tra le tradizioni che forse solo i più agée ricorderanno vi era quella di andare nel giorno di Giovedì Grasso a “lardo con lo sprocco” come si legge nel testo Unnser al spròoch di Mauro D Orazi.

Lo sprocco, spiega Ugo Preti nel testo, “era un legno aguzzo a forma di spadino che serviva ai ragazzi poveri, generalmente camarànt (abitanti in «camera», cioè non addetti ai lavori campestri), per una specie di questua. I ragazzi, in piccoli gruppi, si recavano nelle varie case dei contadini della zona e giunti davanti alla porta recitavano una piccola filastrocca (A sun gnù a ònzer al spròch – dèmen bèin un bèl malòch – dèmen bèin ‘na bòuna fàtta – a sun gnù a ònzer la mé stàcca). Usciva allora la rezdòra che infilava in ogni spròch un pezzetto di lardo, più o meno grande a seconda della più o meno buona resa data dalla pcarìa (la macellazione del maiale).

I ragazzi ringraziavano e si recavano alla casa appresso ripetendo il rituale precedente. In poco tempo riuscivano a riempire al spròch e allora contenti andavano a casa loro, fieri di partecipare al sostentamento della famiglia col loro contributo”.

Scrive il poeta carpigiano Giacinto Bruschi: Co’ ‘l spròoch in d’na man e in cl’etra la brèta, un picc’ a l’ùss… un còlp a la marlèta, andeva in tùtt al cà d’ lungh a ‘l canèl in-dua i avìven masè al nimèl (Con lo “sprocco” in una mano e nell’altra il berretto un picchio all’uscio, un colpo al saliscendi delle porte andavo in tutte le case lungo il canale (il Gabelo) dove avevano ucciso il maiale).

Ma il Carnevale era anche molto amato dagli adulti. “La palestra della Società Sportiva La Patria – scrive Luciana Nora  divenne, a partire dal 1896, il locale per eccellenza ove venivano organizzati gli intrattenimenti danzanti del lungo ciclo carnevalesco. L’ampio e alto salone adibito a palestra era altrettanto conosciuto da tutta la cittadinanza come Festival. I proventi derivanti dai biglietti d’ingresso alle feste danzanti e relativi buffets erano una sicura fonte di finanziamento per la società sportiva che altresì non si esimeva dal devolverne una parte agli istituti di beneficenza locali parte. Così si legge nell’avviso della festa carnevalesca del 1896: Si avvertono i ballerini d’ambo i sessi della città e del contado che il giorno 12 gennaio si inaugurerà nel patrio castello un grandioso Festival. Coloro che hanno i piedi dolci e che quindi non possono ballare, troveranno magnifiche sorprese e splendidi buffets. Avanti dunque o signori! la spesa è piccola e il divertimento è grande” Prendeva avvio una tradizione che conobbe pause solo in concomitanza di eventi bellici e che, almeno fino agli Anni Sessanta, ha coinvolto tutte le generazioni, rendendosi complice di un innumerevole formarsi e, qualche volta, disfarsi di coppie”.

E lo spirito trasgressivo della festa, sia in città che in campagna, doveva essere davvero eccezionale, sottolinea ancora Luciana Nora, se l’allora parroco di Cortile, nella sua cronaca scrupolosamente redatta, entrando in Quaresima, ogni anno annotava l’evento con brani molto simili tra loro in cui si legge: “20 febbraio 1885 – Nei giorni 15-16-17 andante ha avuto luogo il solito triduo di riparazione alle tante offese che vengono fatte al Signore negli ultimi giorni di Carnevale. Il concorso dei fedeli alla chiesa è stato soddisfacente, come discreto è stato il numero di quelli che si sono accostati ai Santi Sacramenti”. 

Il Giovedì Grasso era anche tempo di giochi: dalla rottura della pignatta alla corsa nei sacchi, all’albero della cuccagna. E dopo tanto divertimento era la gola ad essere accontentata con una delle specialità culinarie di casa nostra, le frappe o rosoni che dir si voglia. 

“Le frappe – prosegue Ugo Preti – larghe tagliatelle di pasta dolce, profumate col limone, venivano fritte nello strutto. Queste tagliatelle prima d’immergerle nell’unto bollente venivano intrecciate o annodate o fatte a fiocco in modo che ne risultassero altrettanti grovigli; dopo la cottura venivano ricoperte abbondantemente con zucchero a velo che si ritrovava, dopo averle mangiate, sul naso, sul mento e, la maggior parte sui pantaloni. Arrivavano in tavola generalmente tra una partita e l’altra di tombola che si giocava in famiglia per chiudere in allegria il Giovedì Grasso.

Chi gioca più a tombola? Anche questo è un ricordo. Come un ricordo sono oramai le frappe, le frittelle e il lardo, tenuti tutti lontano dalla lotta contro l’ulcera, il colesterolo, il peso-forma e, diciamo pure la verità, dall’età e dall’esagerata abbondanza che troviamo giornalmente sulla nostra mensa”.

1947 – Carnevale in Piazza – Carro Marelli

In realtà sulla tavola di Carnevale le frappe sopravvivono ancora ma sempre più spesso vengono acquistate in pasticceria o al supermercato e allora perché non cimentarsi ai fornelli, sperimentando un’antica ricetta? Tra le tante pubblicate da Mauro D’Orazi ve ne proponiamo due. 

Dal ricettario del carpigiano Daniele De Pietri:

Farina Kg 1.000

Zucchero gr. 200

Burro gr. 100

Uova intere gr. 400

Un pizzico di sale

Scorza di limone – Vaniglia

Olio o strutto – Zucchero velo

Procedimento: fare una fontana con la frutta impastare zucchero e burro aggiungere le uova poco per volta infine incorporare la farina fare un impasto sodo lasciare riposare, almeno un’ora poi stendere sottile tagliare a piacimento e friggere.

E se con le dosi non siete pratici ecco che la carpigiana Ilva Tosi corre in vostro aiuto: Mè a la sò cun la règola dal duu: duu èeto èd farèina, duu óov, ‘na nóoṡ èd butéer desfàat, un pòo d sassolino e ‘na scòorsa gratèeta d limòun. A m arcmàand… al sfóoi al va tirèe sutìil. I iin ‘na buntèe!

E allora buon Giovedì Grasso a tutti! 

J.B.

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