Malattia mentale, l’antidoto al mito dell’inguaribilità

Quali sono i fattori che favoriscono i percorsi positivi in situazioni che appaiono disperate, come molte esperienze esistenziali dolorose e poco comprensibili, come quelle psicotiche? Ci si può ricostruire giorno dopo giorno, trovando nuovi orizzonti di senso? A questi importanti quesiti cerca di rispondere il dottor Giuseppe Tibaldi, psichiatra, nonché direttore dell’Unità di Salute mentale dell’Area Nord dell’Ausl, nel libro La pratica quotidiana della speranza - Storie di guarigione.

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il dottor Giuseppe Tibaldi

Si può uscire da sotto le macerie? Si può scorgere la luce, dopo essere sprofondati nel buio dolore e della sofferenza legati alla malattia mentale? Quali sono i fattori che favoriscono i percorsi positivi in situazioni che appaiono disperate, come molte esperienze esistenziali dolorose e poco comprensibili, come quelle psicotiche? Ci si può ricostruire giorno dopo giorno, trovando nuovi orizzonti di senso? A questi importanti quesiti cerca di rispondere il dottor Giuseppe Tibaldi, psichiatra, nonché direttore dell’Unità di Salute mentale dell’Area Nord dell’Ausl, nel libro La pratica quotidiana della speranza – Storie di guarigione. Pagina dopo pagina a ricorrere, su tutte, è una parola sola. Piccola ma straordinaria: speranza. Una speranza che, come scrive nell’introduzione, Don Luigi Ciotti, riprendendo Franco Basaglia, è possibile solo se va a braccetto col riconoscimento: “la relazione è terapeutica quando tiene fuori il potere, quando incontra l’altro su un piano di rispetto e reciprocità, quando va incontro al bisogno più profondo della persona, un bisogno che tutti noi abbiamo: quello di essere riconosciuti”.

Quando l’orizzonte della cura si riduce infatti a mero contenimento chimico della sofferenza, l’apatia che ne deriva, prosegue Ciotti, “porta la persona a uno stato di semplice sopravvivenza, che azzera ogni iniziativa di cambiamento. E’ la perdita della speranza: nel futuro, nella propria vita, nella cura e nell’impegno necessario ad affrontarla. La sfida che oggi devono porsi i servizi che accolgono persone fragili è passare dall’apatia della sopravvivenza alla rinascita della passione per la vita: passioni di relazioni, di ricerca, di libera costruzione di sé”.

Un invito che il dottor Tibaldi abbraccia pienamente, rilanciando l’importanza di allargare lo sguardo, di andare oltre la diagnosi, intraprendendo un percorso di cura capace di rimettere al centro il concetto di speranza ragionevole. Una speranza che non è attesa di un “domani migliore – conclude Ciotti – bensì laborioso presente volto a costruirlo… Una tensione di vita che si fa progetto. Un desiderio irriducibile di nuovo e di futuro”. Ma per far sì che i pazienti non sprofondino nella di-sperazione, è fondamentale che gli operatori nutrano fiducia nei loro confronti e nella loro capacità di ritrovare passione e senso alla vita.

Fabrizio Benedetti sostiene che “le parole attivano le stesse vie biochimiche dei farmaci come la morfina e l’aspirina” ecco perché, scrive il dottor Tibaldi, l’ascolto e la relazione sono elementi chiave in ogni percorso di cura. E poco importa quanto infausta sia la diagnosi, “i professionisti che sin dal primo incontro escludono qualsiasi possibilità di recupero o di guarigione” commettono un grave errore. Le testimonianze di alcune sopravvissute come Patricia Deegan, Akiko Hart, Rachel Waddingham e Veronica P. riportate nel libro, “offrono un contributo essenziale sul tema della speranza come pratica quotidiana, come componente essenziale della relazione tra chi vive queste esperienze così radicali e coloro che li accompagnano (professionisti e non).

Le loro testimonianze dirette rappresentano anche la conferma chiarissima di uno dei denominatori comuni dei contributi di questo libro: le speranze ragionevoli sono sempre speranze condivise.

“Essere ascoltati e creduti, disporre di un testimone empatico e di almeno una persona che creda fermamente alla possibilità della guarigione” sono i pilastri su cui deve poggiare un proficuo percorso di cura.

“Questi elementi possono essere alla base dei percorsi formativi dei futuri professionisti della salute mentale?” Si chiede Giuseppe Tibaldi. Di certo, già oggi rappresentano “il più potente antidoto al mito dell’inguaribilità… l’ultimo muro del manicomio, ancora molto lontano dall’essere abbattuto”. Le pagine di questo prezioso libro altro non sono che tanti colpi di piccone a questo muro duro a crollare.

“Vorrei con questo libro – scrive l’autore – impedire a qualsiasi operatore della salute, non solo mentale, di restare o di entrare, nel gruppo degli smontatori di meraviglie. Come ci suggerisce Mario Benedetti, questo è una scelta di campo non solo necessaria, ma inevitabile”.

Particolarmente significativo il contributo di Kaethe Weingarten che definisce “la speranza ragionevole come una variante della speranza. Fa riferimento alle azioni che vengono intraprese, anziché ai sentimenti che una persona può essere, o meno, in grado di percepire, ed evocare. Ed è relazionale: io sono perché noi siamo. Io spero perché noi speriamo. Una pratica orientata verso iniziative nella dimensione del qui ed ora. Le speranze ragionevoli sono speranze umili, che consentono di costruire obiettivi realistici a scapito di quelli ideali. Esse si accontentano di arrivare a fare molto meno del dovuto, pur di riuscire a fare comunque qualcosa. Una pratica clinica fondata sul concetto di speranza ragionevole è compatibile con la visione sistemica propria della terapia della famiglia. Promuove un atteggiamento, una prospettiva che apre ad aree di esplorazione che potrebbero altrimenti essere trascurate. Offrirsi come testimoni è un elemento essenziale nella prospettiva di co-costruzione di speranze ragionevoli. Per questa ragione è assolutamente cruciale che ogni professionista comprenda pienamente la propria posizione e cerchi sempre di essere un testimone consapevole e dotato di iniziativa”.

I terapeuti che condividono tale prospettiva, prosegue Kaethe Weingarten, cercano di far arrivare ai propri assistiti tre messaggi principali: “le speranze ragionevoli non sono uno stato d’animo, una sensazione soggettiva, ma un piano di azione che consente di seguire un percorso verso un obiettivo; queste speranze non escludono la presenza di dubbi e momenti di disperazione; le altre persone possono esserci di supporto, sia nell’aiutarci a definire percorso e obiettivi sia nel prendere iniziative che facilitano il raggiungimento dei nostri obiettivi… Quando produciamo speranze ragionevoli con i nostri assistiti, entriamo in un processo da cui possono emergere nuove forme di futuro. Un processo creativo che si fonda su una capacità di ascolto radicale e su una radicale disponibilità ad aprire i nostri cuori”.

A dire che tutto questo è possibile sono i “sopravvissuti”, come Patricia Deegan: “il processo di ripresa è caratterizzato essenzialmente da una sempre più profonda accettazione delle nostre fragilità. Possiamo arrivare a considerare questi limiti, questi elementi di fragilità, come il terreno fertile su cui crescono le nostre capacità (anziché vederli come generatori di disperazione). Questo è il paradosso della guarigione: solo accettando ciò che non possiamo fare o essere, riusciamo a scoprire ciò che invece possiamo essere o fare”.

Il contribuito di chi sta intorno è fondamentale così come l’accettazione dei propri limiti: “quello che ho imparato dai gruppi di uditori di voci – sostiene Akiko Hart – è che nonostante uno dei loro fondamenti sia la speranza, anche la disperazione deve trovarvi spazio. Dobbiamo ascoltarla e onorarla. Ho imparato che, in me, la disperazione porta alla luce sentimenti profondi e inquietanti di impotenza. Questo mi ha fatto riflettere su quanto posso fare, faccio o dovrei fare per aiutare le persone… ho imparato che va bene sentirsi impotenti quando lo si è. Sto anche imparando che la speranza che porto è la mia. E’ una mia scelta. Ne ho bisogno per sopravvivere. Non posso imporla a nessun altro. Va bene perderla, va bene conservarla. Ed è anche possibile fare entrambe le cose”.

“Gli ostacoli sono tanti,- dice Veronica P. – il percorso è lungo, ma si può andare oltre. Bisogna maturare la convinzione che anche le problematiche psichiche e non solo quelle fisiche possono essere momentanee, che i farmaci non devono accompagnare necessariamente un’intera esistenza, ma che si può trovare un nuovo equilibrio, inizialmente appoggiandosi a chi è attorno a noi, per poi trovare la forza dentro se stessi, a tempo debito”. Dello stesso parere anche Rachel Waddingham: “abbiamo tutti i nostri punti di forza ma talvolta abbiamo proprio bisogno che qualcuno intorno a noi desideri vederli”.

La contrapposizione radicale tra le storie di guarigione e le teorie biologiche del cervello rotto è facile da comprendere, conclude il dottor Tibaldi, “i racconti di chi è sopravvissuto alla propria catastrofe ci dicono – in modo convincente – che si può uscire da sotto le macerie, che si può dare significato alla catastrofe e che si può ricostruire con regole nuove, che proteggono da nuovi crolli. Le teorie biologiche al contrario diffondono la convinzione di un difetto, di una tara ineliminabile, che viene semplicemente a galla al momento del crollo ma che esisteva già prima e continuerà a esserci: su questa base esse non alimentano speranze, ma seminano disperazione”.

Per raggiungere il porto si deve navigare. “Navigare non gettare l’ancora. Navigare, non andare alla deriva. Uno dei grandi archetipi universali è il vascello che riporta Ulisse alla sua Itaca. La navigazione è la metafora della vita che procede ora su mari tranquilli, col rischio della fissità, ora in mezzo a bufere”. Navigare può essere pericoloso ma ci offre la possibilità di guardare l’abisso, di affondarvi le mani, di scoprire nuove possibilità, di fare i conti con noi stessi e di accettare le nostre paure, prima di riemergere.

Jessica Bianchi