Vera e propria chiave di volta nel trattamento dei pazienti Covid positivi, le Usca – Unità Speciali di Continuità Assistenziale anche in questa seconda ondata epidemica continuano a svolgere un ruolo fondamentale nella battaglia al virus. Una guerra combattuta sul campo, nel territorio, nelle case dei malati.
L’istituzione nel nostro territorio, nel marzo scorso, delle Unità Speciali è stata una risposta straordinaria a una situazione di emergenza, che ha consentito di rafforzare la gestione dell’assistenza sanitaria intervenendo lì dove oggi si concentra il maggior bisogno, vale a dire sul territorio. Ma come è cambiato il loro lavoro e quali sono le maggiori criticità con cui devono fare i conti?
“Al momento – spiega il dottor Michele Pescetelli, specialista in Medicina di comunità nonché referente organizzativo delle Usca – l’attività è suddivisa su due turni, uno mattutino e uno pomeridiano, dal lunedì al sabato (solo alla mattina) ed è assicurata dalla presenza di due medici per ciascun turno. La scorsa primavera le risorse a disposizione erano maggiori a causa della sospensione delle attività specialistiche e diagnostiche ma per ora il servizio è pienamente efficiente. La notizia positiva è che giovani medici neo laureati hanno dato la propria disponibilità per operare all’interno di queste unità e, dopo una specifica formazione, tra qualche settimana, saranno pronti darci una mano”. A far scattare la visita domiciliare sono i medici di Medicina Generale e i pediatri, i quali segnalano alle unità i pazienti con diagnosi accertata di Covid così come i contatti stretti di positivi.
Indispensabile l’attività di filtro fatta dai medici di famiglia: “un bambino o un giovane paucisintomatico viene tenuto monitorato regolarmente al telefono fino alla guarigione mentre quella quota minore di pazienti che presenta una forma sintomatica importante per giorni necessita di essere visitata per capire se è in corso una polmonite (ndr – è in fase di completamento un corso di formazione specifico sull’ecografia toracica). In questo modo è possibile discriminare, nell’insieme dei pazienti con sintomi persistenti, chi deve eseguire accertamenti diagnostici non eseguibili al domicilio, come la Tac ad esempio, e chi deve essere ospedalizzato”, prosegue il dottor Pescetelli.
Un approccio che consente da un lato di “gestire meglio gli accessi al Pronto Soccorso i quali, ribadisce il medico, “non devono essere diretti, in caso di sintomatologia riconducibile al Covid, bensì filtrati” e di “ottimizzare la terapia, per quanto non specifica, al domicilio”. Il monitoraggio dei pazienti, dotati di un saturimetro, “avviene attraverso telefonate regolari, nelle quali i medici dell’Usca fanno domande specifiche sulla saturazione dell’ossigeno e per capire come decorre la malattia, pronti a intervenire in caso vi fossero dei peggioramenti”. Visitare tutti i sintomatici, ribadisce Michele Pescetelli, “non è sostenibile, per tale motivo ci si concentra sui più fragili, quindi i malati cronici e gli anziani, e su coloro che presentano quadri di malattia più severi”.
Dottor Pescetelli, sono circa un centinaio i casi attivi a Carpi, quanti di questi sono in isolamento domiciliare?
“Circa 190 persone: una sessantina di casi accertati e 130 contatti in isolamento ma la situazione è liquida, in continua evoluzione”.
Come è cambiata l’attività delle Usca rispetto a questa primavera?
“La capacità diagnostica attuale è di gran lunga superiore rispetto a quella di marzo – aprile e dunque oggi vediamo più casi. A primavera erano attive due squadre Usca di medici e infermieri per turno, oggi ne basta una. Il numero di visite domiciliari sale ma siamo ancora lontani dai numeri registrati a inizio anno”.
Le ospedalizzazioni crescenti preoccupano?
“Diciamo che la situazione ospedaliera ci impone di definire alternative al ricovero, ci sono trend che vanno letti rapidamente per non farsi cogliere impreparati. Per tale motivo, abbiamo attivato un OsCo – Ospedale di Comunità a Novi di Modena in un’ala della casa residenza anziani Cortenova, con ingresso e spazi totalmente indipendenti e compartimentati, che ospiterà 15 pazienti. Un potenziamento nella rete dei servizi territoriali fondamentale per fronteggiare l’emergenza Covid, in quegli spazi, infatti, verranno ospitati unicamente pazienti positivi provenienti da tutto il distretto che non necessitano più di un ricovero ospedaliero, ma le cui condizioni richiedono ancora un’assistenza medico-infermieristica continuativa”.
Qual è al momento la preoccupazione maggiore dell’Ausl?
“I numeri. L’inverno è lungo e la tenuta del sistema è profondamente legata al numero di nuovi casi. Più ciascuno di noi sarà responsabile a livello individuale maggiore sarà la possibilità di reggere. Abbiamo ancora delle riserve funzionali ma non sono infinite”.
Il numero del Dipartimento di Igiene pubblica da contattare in caso di bisogno per problematiche relative al Covid è in tilt da giorni…
“E’ vero ma stanno formando degli operatori per potenziare il call center”.
Anche sul fronte tamponi si registra qualche criticità…
“La capacità di repertare i tamponi rappresenta un altro punto critico speriamo di avere qualche risposta a breve”.
Quanto personale è impiegato nel drive-through di Carpi?
“L’assetto attuale vede impegnati 4 infermieri al drive-through e 2 che si occupano dei tamponi domiciliari e nelle Cra ma, al bisogno, le unità di personale vengono incrementate”.
Quanti tamponi vengono fatti mediamente ogni giorno a Carpi?
“Circa 250 tamponi al giorno”.
Numerosi i focolai che si sono accesi nelle scorse settimane in alcuni ospedali della regione, compreso l’Ospedale Ramazzini: la scorsa nell’ambito dello screening di controllo che viene effettuato ciclicamente sui pazienti ricoverati, presso la Lungodegenza dell’Ospedale di Carpi è stata infatti individuata una positività al tampone per la rilevazione di infezione da Sars-Cov2. Dall’ulteriore approfondimento tutti gli operatori finora sottoposti a screening (circa 50) sono risultati negativi, mentre tra i pazienti ricoverati (circa 40) sono emerse ulteriori 4 positività. Un ospedale che sempre più deve dialogare col territorio. “Il ruolo del territorio è fondamentale. Investirvi non significa solo immettere risorse economiche bensì favorire comunicazione e scambi continui. Questa pandemia ha reso ancora più evidente il bisogno di coinvolgere medici di famiglia e pediatri: solo insieme, tirando dalla stessa parte, per così dire, possiamo davvero capire di cosa c’è bisogno e come intervenire. Ad oggi non abbiamo ancora sufficienti evidenze scientifiche per sapere cosa fare esattamente e dunque è la pratica quotidiana a dirci come muovere il timone. Medici di famiglia, pediatri, ospedalieri, Usca… solo attraverso un lavoro corale e coordinato – conclude Pescetelli – possiamo dare il massimo e tutelare la salute pubblica. Sì alle risorse ma soprattuto alla promozione di una cultura e di un approccio diversi”.
Jessica Bianchi