Contro il giorno della memoria

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In occasione del Giorno della Memoria, che si celebra ogni 27 gennaio anniversario della liberazione del Lager di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa nel 1945, Tempo propone la riflessione che Elena Loewenthal (scrittrice che ha tradotto numerosi testi ebraici e collabora con il quotidiano La Stampa di Torino. Tiene un corso sulla cultura ebraica, presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano) ha affidato alle pagine del suo pamphlet Contro il Giorno della Memoria.

“Come si fa a scendere a patti con una storia così? Come si fa a farci i conti? A togliersela dalla testa, a non trasformarla in un’ossessione, a evitare che ti si aggrovigli dentro?
A pensare che possa lasciarti in pace anche soltanto un momento, per tutti i giorni della tua vita?  Niente da fare. Te la trascini dietro. Sai che ci stai dentro e non ne esci più anche se sei nata dopo.  Forse, ogni tanto speri di poterla dimenticare. E’ pura illusione, è un auspicio che affidi, caso mai, alle generazioni successive. Ma altro che memoria, culto della memoria, celebrazione della memoria, moralità della memoria. Per te che sei nata dopo, cioè per me, il vero sogno sarebbe poterla dimenticare, questa storia. Rimuovere la Shoah dall’universo della mia coscienza e dal mio inconscio, soprattutto.
(…) Perché mai coltivarne la memoria, se non per continuare a star male? Ma l’autolesionismo non fa parte della mia identità, né del mio bagaglio morale o teologico. L’ebraismo è una cultura della vita, ha fede nella vita. Non coltiva la morte.
(…) Anche per questa ragione, o forse in primo luogo per questa ragione, io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria.
Ma ovviamente l’oblio non è una terapia culturale accettabile. Viviamo in un tempo che celebra la memoria come valore e l’oblio come difetto. Ricordare è un bene di per sé. Siamo portati a considerare questo come un assunto indiscutibile. Ma forse non è così. Forse anche le società hanno bisogno di dimenticare – le ferite, i torti perpetrati e quelli subiti. Come l’individuo, che per riprendersi deve rimuovere i traumi almeno in parte, almeno per un certo tempo.   Al di là di questo, il GdM sta dimostrando, purtroppo, che la memoria non porta necessariamente un segno positivo, non è utile o benefica di per sé. Può rivoltarsi e diventare velenosa. Scatenare il peggio invece di una presa di coscienza. Come aiuta molti a capire, come fa opera istruttiva, così il GdM è diventato il pretesto per sfogare il peggio, per riaccanirsi contro quelle vittime, per dimostrare che sapere non rende necessariamente migliori. Di fronte ad alcuni, diffusi fenomeni, la reazione istintiva è ormai quella di rammaricarsi della conoscenza acquisita: se circolasse meno memoria, se di Shoah non si parlasse tanto e disinvoltamente, forse si eviterebbero esternazioni verbali – e a volte non solo verbali – che sono un insulto rivolto a tutti. Ai morti, ai sopravvissuti, ma soprattutto alla società civile contemporanea. In sostanza, in questi ultimi anni la memoria non si è dimostrata particolarmente terapeutica: se di certe cose si parla molto più che in passato, è anche vero che non di rado se ne parla offendendo la memoria – sempre che abbia senso, l’espressione «offendere la memoria»: caso mai si offendono i vivi, perché i morti, purtroppo per loro, non si offendono più. E’ quasi come se la celebrazione della memoria avesse autorizzato la sua stessa violazione. Per questo ogni tanto il silenzio sarebbe auspicabile.  Ma la violazione peggiore, quella più grave e sicuramente più gravida di conseguenze, è quella di considerare il GdM come l’occasione di un tributo agli ebrei, un postumo e ovviamente simbolico risarcimento.
Non è, non dovrebbe essere nulla di tutto questo.  Il GdM riguarda tutti, fuorché gli ebrei che in questa storia hanno messo i morti. Che non l’hanno ispirata, ideata, costruita e messa in atto. Che non l’hanno neanche vista, in fondo: ci sono precipitati dentro. Era buio. Gli altri sì che hanno visto. E’ questo sguardo che dovrebbe celebrarsi nel GdM. Allora nel presente, oggi verso il passato.  E non è uno sguardo nemmeno consolatorio. […] Ma non certo per far sì che non accada mai più. La memoria non porta con sé alcuna speranza. La cognizione del male non è un vaccino. «Ricordare perché non accada mai più» è una frase vuota. Se anche non dovesse accadere mai più, non sarà per merito della memoria, ma del caso”.
Elena Loewenthal
 

 

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