In fuga per la libertà

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A Netanya, in Israele, c’è una rotonda che ospita il monumento di una nave. La sua storia ha attraversato il mare del tempo. Vagando dalla Slovacchia alla Palestina quel vecchio battello ha salvato oltre 500 ebrei in fuga dagli orrori dell’Europa nazista. Il 18 maggio 1940 il Pentcho, un vecchio rimorchiatore, lascia il porto di Bratislava sul Danubio. A bordo ci sono 520 ebrei – cechi, slovacchi, polacchi – intenzionati a discendere il fiume fino a Sulina, sul Mar Nero, dove hanno appuntamento con una nave più grande che li farà proseguire verso la Palestina. La nave deve attraversare numerose frontiere e viene ripetutamente bloccata e sequestrata. Ogni volta, miracolosamente, i passeggeri trovano il modo di ripartire. Quando finalmente il Pentcho arriva a Sulina, sono trascorsi cinque mesi e la nave che li deve trasportare in salvo non c’è più. Il capitano, allora, decide coraggiosamente di continuare la navigazione fino a quando il motore, inadatto al mare, si sfascia e la nave si arena su un’isola deserta. Dopo dieci giorni i naufraghi sono soccorsi da una nave militare italiana… La storia del Pentcho ha qualcosa di incredibile e straordinario. Questa pagina – quasi visionaria – della Shoah è stata raccontata dal pluripremiato documentarista carpigiano Stefano Cattini in Pentcho: vincitore del primo premio al Festival dei Popoli di Firenze, il film, le cui musiche sono dell’autore carpigiano di Enrico Pasini, è stato presentato nei giorni scorsi anche alla prestigiosa New York Film Academy. “Ho conosciuto questa storia, forte e straordinaria, grazie a un’amica originaria della Repubblica Ceca che conosceva un uomo, Karl, che era stato a bordo di quella nave. Un viaggio, quello del Pentcho, che mi ha ricordato le dinamiche poetiche e surreali del film Train de vie – Un treno per vivere del romeno Mihaileanu e mi ha intrigato sin dal primo istante. Quando ho incontrato Karl per la prima volta, qui in Italia, lui aveva 85 anni e un’energia pazzesca.  Oggi ne ha 90 ma – sorride Stefano Cattini – ti assicuro che quell’energia è del tutto immutata, sarebbe venuto con me anche a New York ma, purtroppo, l’influenza lo ha bloccato nella sua casa a Tel Aviv. Karl, prezioso custode di una memoria antica, mi ha fatto conoscere innumerevoli vite”. Le storie di coloro che hanno intrecciato la propria esistenza a quella di questa epica nave. Uomini e donne che hanno sofferto, tremato, amato e sperato, a bordo del Pentcho o che sono nate durante il viaggio, sul battello o, ancora, al campo di Ferramenti e a Rodi. “Il film ripercorre la rotta di quel viaggio verso la libertà attraverso del materiale di repertorio e le immagini dell’oggi; in questo modo passato e presente si alternano. Si compenetrano. Continuamente”, spiega Stefano Cattini. All’inizio ad affascinare più di ogni altra cosa il regista era “quella nave sovrappopolata che tanto somigliava, nella mia mente, a Il castello errante di Howl. Poi ho compreso che ciò che volevo davvero era raccontare le loro storie. Dar loro una voce. Dar forma ai loro ricordi, seppure addolciti e in parte addomesticati dallo scorrere del tempo. Il mio documentario voleva fondarsi su quella memoria emotiva. Personale. Pentcho non è il frutto di uno studio documentale, ero a caccia di qualcosa di inaspettato e intangibile come un sentimento, un’emozione. Per questo non vedevo l’ora di iniziare a girare”. Per Stefano, Tel Aviv è diventata una sorta di seconda casa, “sopravvissuti e famigliari mi hanno praticamente adottato in quanto portavoce della loro vicenda. Un’investitura che mi rende orgoglioso ma di cui avverto il peso della responsabilità”. Le proiezioni del film nella Grande Mela e in tante città italiane stanno riscuotendo un notevole successo e non solo perché Cattini ci fa salire sul Pentcho, ma perché con struggente empatia, ci pone al fianco di quelle persone in fuga, raccontando la Shoah da un’angolazione nuova, con lucidità, senza mai scivolare nella retorica. “Credo non ci si debba limitare a vivisezionare quanto accaduto allora, d’altronde i genocidi che si sono consumati nel mondo e che tuttora perdurano in alcuni Paesi sono migliaia; al contrario penso si debba fare una riflessione profonda e sincera sul valore dell’umano sentire. Sul suo significato più autentico. Cosa ci rende umani? In Pentcho io non volevo offrire una lettura positiva del Fascismo, bensì mettere in luce come l’essere umano possa restare tale nonostante tutto”. Ed è proprio questo invito a guardare avanti, oltre gli orrori, confidando in quella stessa pietas umana che ha saputo salvare la vita di 520 ebrei nel periodo più buio della storia del Novecento, a rendere Pentcho tanto potente.
Jessica Bianchi

 

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