“La Casa residenza Il Carpine è la mia famiglia. La mia mamma è lì da cinque anni e tutti, vecchietti e operatori, sono diventati la mia famiglia”. Continua a ripeterlo questa nostra concittadina, angosciata dalla situazione che si è venuta a creare tra quelle mura. “Non vedo mia madre dagli inizi di marzo quando le case di risposo sono state blindare per evitare che il virus vi facesse il suo ingresso e compisse una strage ma qualcosa al Carpine dev’essere andato storto” perché il coronavirus lì, ci è entrato eccome. Ad oggi, la situazione sta lentamente tornando sotto controllo e si contano 6 anziani positivi e 3 decessi ma il dramma dei mesi scorsi aveva contorni ben più drammatici.
“Le prime tre positività si sono verificate all’interno del nucleo demenze: l’ho saputo l’8 marzo dalla stampa, nessuno mi ha chiamata per avvertirmi ed è da allora che vivo nell’ansia”. Una notizia devastante: “all’inizio non sapevo cosa fare. Mia madre ha avuto un ictus, mi sono presa cura di lei finché ho potuto ma quando mi sono resa conto che anche con l’aiuto di una badante la situazione era diventata insostenibile sono stata costretta a ricorrere a una struttura. Con lo scoppio della pandemia avrei tanto voluto riportarla a casa ma sono troppe le cure di cui necessita”.
L’unico legame col Carpine passa ora attraverso il telefono: “in questi mesi li ho tempestati di telefonate e di giorno in giorno ho iniziato a non sentire all’altro capo del filo le voci che conoscevo. Alcuni operatori e infermieri si sono ammalati perché, soprattutto in un primo momento, sono stati lasciati soli ad affrontare un’emergenza a cui non erano preparati”. E senza i giusti dispositivi di protezione i contagi non si sono fermati e “si è creato un lazzaretto. Proprio lì, tra i più delicati e fragili”, le vittime preferenziali di questo virus. “Ho parlato tante volte col direttore che mi ha rassicurata, mi ha spiegato come i positivi siano stati isolati dal resto degli anziani ma poi anche mia madre, il 26 marzo, si è ammalata. Per un mese ha avuto febbre e diarrea. Non voleva magiare, si è debilitata. E dopo continui miglioramenti e peggioramenti finalmente le hanno fatto il tampone il cui esito è stato negativo. Ma senza un test sierologico come posso essere certa che non abbia passato la malattia?”. Sia chiaro, prosegue la carpigiana, “dentro al Carpine hanno fatto tutto ciò che potevano. Non ho nulla da recriminare, al contrario. Nonostante le enormi difficoltà con cui sono alle prese continuano a trattare noi familiari con gentilezza e premura. Sono loro che si prendono cura di chi amiamo, malgrado la paura, che ci consentono di interagire con loro grazie alle videochiamate ma sono stati lasciati soli. E questo è gravissimo. Intollerabile”.
Perché, si chiede lecitamente questa nostra concittadina “gli operatori sono stati sottoposti a tampone soltanto a fine aprile? Come si può giustificare un tale ritardo?”. Ma, soprattutto, “perché è stato deciso di far stazionare al Carpine i malati ancora positivi dimessi dall’Ospedale? Sì è vero, la struttura era già stata compromessa ma questa decisione ha contribuito ad aggravare la situazione e messo ulteriormente in pericolo gli altri ospiti e gli operatori. Una casa di riposo come si può attrezzare per contenere una malattia infettiva? Basta una paratia per arrestare l’avanzata di un virus?”.
Ora la madre è confusa: “lei ha solo me e nell’ultima videochiamata dei giorni scorsi non mi ha riconosciuta. L’ho vista invecchiata, impaurita. Dentro al Carpine non ci sono più le attività di prima: quanto si aggraveranno gli ospiti? Quante abilità residue perderanno? Quando hanno chiuso le porte ai familiari come si saranno sentiti i nostri cari? Non oso immaginare la paura che hanno provato e il fatto di non vedere i loro figli o i loro nipoti così a lungo dev’essere destabilizzante. Orribile. Non ho idea di come ritroverò mia madre. Non vedo l’ora di poterla riabbracciare per farle sentire tutto il mio amore”.
Jessica Bianchi