Carpi apprezza i suoi figli illustri. Odoardo Focherini, Dorando Pietri, Ciro Menotti: a questi e altri personaggi sono tributati i dovuti onori, intitolate vie e scuole, ne è salvaguardata e trasmessa la memoria. Tra loro anche Manfredo Fanti. Un eroe del Risorgimento al quale sono dedicate una scuola primaria, una strada e il liceo scientifico. Persino un monumento equestre. Chissà dove punta, dall’alto del suo cavallo di Parco delle Rimembranze, lo sguardo del fiero generale. Chissà se è stato in grado di vedere, come la statua del principe nel racconto di Oscar Wilde, il sequestro, per infiltrazioni camorristiche che possono farsi risalire al famigerato clan dei Casalesi, del locale Matrix II, avvenuto nella sua città natale nel Marzo del 2009. Ma cos’ha da spartire un’icona del Risorgimento con le infiltrazioni della criminalità organizzata nel nostro territorio? Ci aiuta a comprendere Antonio Caprarica, volto storico della Rai da Londra che, all’Auditorium San Rocco, ha recentemente presentato il suo nuovo libro: C’era una volta in Italia. Tra le pagine di questo gustoso racconto degli anni turbolenti che portarono alla nascita della nazione sono nascoste le chiavi per decifrare il mistero. Grazie alle sue parole siamo in grado di comprendere come Fanti, oltre ai numerosi meriti – aver partecipato alle battaglie di Custoza, Magenta, e San Martino; alla guerra di Crimea; aver fondato la scuola militare di Modena; aver attuato, come ministro della guerra, una poderosa riforma dell’esercito – ebbe anche un demerito – peraltro ascrivibile a tutta la classe politica del suo tempo – una miopia i cui strascichi arrivano sino a noi: quella di non aver capito le popolazioni meridionali, acquistate al Regno dopo il crollo del dominio borbonico e di non aver cercato un dialogo reale con loro, lasciandosi fuorviare da pregiudizi antichi e radicati.” La colpa di Fanti è quella di non aver capito il Sud per niente. E’ un errore imputabile alla tradizione da cui viene e alla scuola in cui si è formato. I generali sabaudi erano militari tutto d’un pezzo, assolutamente incapaci di giostrarsi nelle sottigliezze della politica”. Mafia, camorra e ‘ndrangheta esistevano già prima dell’Unità, ma il ‘peccato originale’ della classe dirigente del novo stato fu quello di non comprendere come il brigantaggio – la lotta al quale fu definita la prima guerra civile italiana – andasse estirpato anche con strumenti diversi da quelli della repressione più feroce: “l’idea che il brigantaggio andasse affrontato estirpandone anzitutto le sue ragioni sociali non sfiorava Fanti nemmeno da lontano. Del resto lui era l’uomo che, come Ministro della Guerra, aveva voluto l’immediato scioglimento dell’esercito garibaldino” spegnendo così sul nascere le speranze di rinnovamento e giustizia sociale suscitate dall’avventura dei mille di Quarto. Per acquietare la ribellione meridionale, furono necessari massicci rinforzi militari e promulgazioni di norme speciali, dando origine uno scontro che porterà migliaia di morti. La repressione del brigantaggio postunitario fu infatti molto cruenta e condotta, oltre che da Fanti, da militari quali Enrico Cialdini, Alfonso La Marmora, Pietro Fumel, Raffaele Cadorna e Ferdinando Pinelli, che destarono polemiche per i metodi impiegati. “Da questo punto di vista era un reazionario della più bell’acqua, chiedergli di comprendere le ragioni dei contadini sarebbe troppo anche 150 anni dopo”. Da allora la mafie sono storia italiana, l’altra storia che corre parallela a fianco di quella dello Stato, e spesso a questa si intreccia. La miopia del nostro generalissimo non è certo l’unica causa dell’attuale stato di cose, ma va di certo a sommarsi alle tante che, attorcigliate tra loro, formano ora un bandolo quasi inestricabile. Chissà se oggi, dall’alto del suo cavallo che ci piace immaginare bianco, il generale dai folti baffi scuri capirebbe come, per sconfiggere vecchi e nuovi briganti, occorra prima di ogni altra cosa favorire le condizioni per dare pane e lavoro alle popolazioni del meridione. Giustizia sociale, si sarebbe detto una volta, come precondizione per ogni lotta al crimine organizzato che non voglia essere mero slogan o operazione di facciata Altrimenti questa potrebbe essere l’unica battaglia che vedrà il nostro grande stratega sempre sconfitto.
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