Guerra a colpi di pettine

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Oltre a creare serie difficoltà per le imprese, il perdurare della crisi non fa che esacerbare situazioni che, da difficili, rischiano di farsi insostenibili. Tra le tante, la concorrenza delle attività cinesi non è quella di minor rilevanza. Questa, almeno, è l’opinione della maggior parte dei parrucchieri carpigiani che abbiamo intervistato. Tre i motivi di lamentela principali: pochi controlli sulle attività commerciali, qualità scadente dei prodotti e concorrenza sleale sui prezzi. E’ proprio quest’ultimo il termine utilizzato, senza timore, da Bianca Pedroni, titolare di Bonnie and Clyde: “praticano prezzi insostenibili. Anche contenendo al massimo tutte le spese, non è possibile fare una piega a 7 o 8 euro. Non parliamo poi della qualità: mi è capitato di vedere prodotti di marca che in realtà contenevano materiale diverso. Conosco una parrucchiera che ha venduto il negozio ai cinesi. Bene, pensi che, pur lavorando lì, quando deve tagliarsi i capelli viene da noi, perché di loro non si fida”. Tra i più arrabbiati per la situazione c’è sicuramente Serena Casali di Malù acconciature che, più che prendersela con i cinesi, punta il dito sull’Amministrazione. “Per carità, tutti devono lavorare, ma alle stesse condizioni. La colpa è di chi non fa i controlli appropriati. Il Comune dovrebbe stabilire un prezziario che riguardi tutti, altrimenti pian piano non resterà più un parrucchiere italiano”. Serena lancia un’accusa di quelle davvero gravi, della quale si dichiara profondamente convinta: “è impossibile che a queste persone venga dato il permesso di aprire e che riescano a fare quel che fanno rispettando tutte le norme. L’unica risposta che riesco a darmi è che qualcuno riceva qualcosa per non vigilare come dovrebbe”. Anche sulla qualità, Serena è decisa: “ci sono clienti tornate da me con la testa rovinata. Il problema riguarda anche quelle scuole che concedono la qualifica – senza la quale non è possibile aprire un salone – a chiunque sia disposto a pagare”. Per alcuni, anche soltanto utilizzare il termine ‘concorrenza’ è ridicolo. Tra queste Francesca Bellesia di 3B parrucchieri, che propone un esempio tra tanti: “non conosco una marca di colore che renda possibili quei prezzi. Per una tinta ci sono costi fissi: tubetto di colore, ossigeno, asciugamano e mantella monouso”. Ed è sempre lei a fare un’osservazione sugli orari dei ‘concorrenti’: “un apprendista deve lavorare 40 ore a settimana, e non può fare straordinari, o essere impiegato domenica e lunedì. Come può essere che i cinesi tengano aperto praticamente sempre? Hanno davvero il doppio personale per il turn over?”. Ma chi pensasse che è il razzismo a farla da padrone in questa storia probabilmente resterebbe deluso. Lo sottolinea con forza anche Sabrina Barbieri, per la quale quello della concorrenza cinese è solo uno dei motivi che ha visto la clientela calare negli ultimi anni. “I loro prezzi, complice la crisi, ovviamente li avvantaggiano. Inoltre, mentre da loro ci si aspetta molto poco, da noi si pretende una professionalità sempre maggiore. Non sono ne per far chiudere, ne per cacciare nessuno. Penso però che si debbano stabilire degli standard minimi di prezzo, sotto i quali non sia consentito andare. Vanno bene le differenze, ma che non siano così ampie”. C’è anche chi, come Gianuluca Pitrè di Peluqueria, si sente poco tutelato. “Ce l’ho con chi gli permette di avere prezzi che sono meno della metà di quelli stabiliti dalle nostre associazioni di categoria. Con le spese di gestione di un negozio è semplicemente impensabile chiedere cifre così basse”. Chiosa Federica Vellani, nel campo da 24 anni, “non mi importa che siano cinesi, ma mi arrabbio con il Comune, che a noi impone restrizioni molto precise su orari e tariffe, mentre vedo che alcuni hanno molta più libertà”. D’altra parte però, resta quello che ci confessa un’operatrice del settore. “A volte, quando nel mio salone non c’è nessuno, non resisto alla curiosità e vado a vedere da fuori quello dei cinesi che è poco distante da qui. E lo trovo sempre pieno”. Se si esalta il libero mercato e la concorrenza, è difficile poi pretendere protezioni speciali a seconda dell’appartenenza etnica. Quello sì, sarebbe grave, imbarazzante e sbagliato. In questo caso però non si chiedono speciali favori, ma ci si appella a due valori che non hanno colore: legalità e trasparenza. Fatte salve queste due condizioni, che siano poi i consumatori a concedere il successo a chi lo merita.

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