“Ventotto. Il piano è il secondo”. “Stanza ventotto?”. “No, letto ventotto”. La voce di mia madre è piuttosto tranquilla nonostante la situazione lo sia decisamente meno. Ricordo una conversazione di pochi mesi fa durante la quale le confessai che l’ospedale è un posto che mi mette in uno stato di quiete e lei mi confermò allora la stessa sensazione. Sarà per il mio lungo percorso tra le corsie come volontaria o forse solo per un fatto del tutto fisiologico, è un luogo che non mi spaventa, anzi nel quale mi sento sempre a mio agio. Ma la situazione prende drasticamente una piega diversa quando, a doversi costringere in un letto d’ospedale, è uno dei propri affetti. Uno dei più importanti, oltretutto. E allora credo sia normale sentirsi attraversare da un insieme indefinito di sensazioni contrastanti. La preoccupazione per il suo stato d’animo, il fatto di saperlo lontano dalle sue comodità, il pensiero di cosa proverà durante la degenza che lo attende, il timore dell’intervento e dell’esito insieme e in forma meno eclatante ma comunque latente e costante, la paura di quanto e come si prenderanno cura di lui. Perché diciamocelo, c’è cura e cura e per chi come me, crede in quella dello spirito, condividerà che la gentilezza in questi casi è fondamentale. A dirla proprio tutta dovrebbe essere scontata ma di fatto sappiamo bene che non lo è. La gentilezza è un fatto personale, riguarda forse in minima parte la genetica, il carattere, ma tanto fanno l’educazione ricevuta, l’allenamento all’ascolto, la volontà di voler cambiare punto di vista e prospettive, se necessario, la capacità di farne una buona abitudine quotidiana. E comunque rimane una scelta individuale. Quindi probabilmente, passati in rassegna tutti i suddetti punti mentre salivo le scale per raggiungere il secondo piano e attraversavo la grande sala d’attesa del Reparto di Chirurgia, mi sono soffermata più o meno consciamente su quest’ultimo pensiero.
Con mia grandissima soddisfazione e nemmeno troppa meraviglia (grazie al mio ottimismo che definirei cronico) ho trovato gentilezza continua e costante. Tra le corsie, nello scambio intermittente di sorrisi solidali e informazioni di servizio con parenti in visita. Nelle stanze, tra le mogli che diventano d’un tratto confidenti senza essersi mai viste prima e i degenti che dopo una notte trascorsa assieme sembrano conoscersi da sempre. Le buone maniere, la pacatezza e la comprensione reciproca di chi sta vivendo momenti di vita piuttosto delicati. Poi arriva l’atteso e temuto momento dell’intervento, quel tempo che dura un’eternità scandito da voci che scivolano nei corridoi adiacenti la sala d’attesa e che fanno sussultare perché sembrano messaggeri in cerca di un approdo che non vorresti mai essere tu. E tra questi il medico che ci raggiunge dopo tre ore trascorse a fissare muri dei quali potrei raccontare ogni inutile dettaglio. Il chirurgo, dicevo che ci stringe la mano, si presenta e dettaglia il tipo di intervento che è stato fatto senza lesinare in parole di conforto e affermazioni di ottimo auspicio. Ci sediamo sollevate mentre aspettiamo di veder risalire il nostro pezzo di cuore e i nostri sguardi si incrociano nuovamente timorosi e colpevoli di non aver considerato questa nuova, lunga attesa. Ma qualcuno, che evidentemente ha già vissuto il nostro stesso momento, legge l’allarme nei nostri occhi e ci spiega che il risveglio è lungo e dovremo avere ancora un po’ di pazienza. Ringraziamo per questo conforto gratuito che un po’ ci calma e più di un’ora dopo, lui risale dalla fredda sala operatoria. Seguiamo il letto che trasporta il preziosissimo carico e lo accerchiamo per farci trovare pronte al suo risveglio.
Mi giro per accertarmi di non rubare spazio non mio e, ancora oggi, nitida davanti agli occhi ho l’immagine di Fabio, compagno di stanza di mio padre: vedendolo tornare in camera ancora intontito dall’anestesia si lascia scappare qualche lacrima. Non posso fare a meno di prendergli una mano e sorridere commossa a mia volta in quello slancio d’affetto autentico, in quel momento per noi così delicato e lui, quasi a giustificarsi e con un sorriso tenero e rassegnato, si affretta a spiegarmi che “si fa presto a diventare amici, in queste situazioni”. E si sa che è cosa ormai nota a tanti che hanno passato momenti difficili quanto sia importante fare squadra e quella dava l’idea di essere dotata di un buon numero di fuoriclasse. Gli infermieri attenti e premurosi nel corso della settimana di permanenza aiutano mio padre a mantenere alto il suo spirito già ben attrezzato. E mi colpisce ogni volta il dispiacere che si legge negli occhi dell’addetta alla mensa nel dover fare da ambasciatrice del solito, ripetitivo messaggio: “oggi non potrà mangiare”. Arrivato per lui il momento di nutrirsi dopo quasi 5 giorni di totale digiuno, la signora buona della mensa varca la soglia più gioiosa del suo già stato d’euforia abituale e informa mio padre che sì, oggi mangerà anche lui.
Tronfia e vittoriosa col vassoio in mano lo posa sul tavolino quadrato accanto alla finestra e lo incalza perché si sazi. Ma mio padre non fa in tempo a sedersi che viene investito dalle mille raccomandazioni e dalla raffica di premure che la signora propina una dietro l’altra come una scarica di colpi di mitragliatrice. Perché lei lavora lì da un pezzo e ha visto molte persone operate e mangiare tutto non le sembra una grande idea, sarebbe meglio lasciarne un po’ perché non si sa mai. Vede, è stato operato soltanto ieri e se proprio deve scegliere, mangi la verdura e si metta una mano sul cuore e di questo prosciutto cotto ne mangi solo metà, dia retta a me. Assisto a questo allegro e dolcissimo siparietto con il sollievo di chi ha appena schivato un treno in corsa e non trattengo una risata che la signora interpreta come un invito a continuare.
Mio padre nel frattempo si sta gustando il pasto che di per sé fatica a terminare comunque, ma accontenta la signora tranquillizzandola sul fatto che non ingollerà tutto il vassoio. Qualcosa per lei lascerà di sicuro. Lei ride soddisfatta per la battuta e per il suo comizio e ci lascia con saluti affettuosi.
La storia si ripete nei giorni a seguire e nella stanza si affacciano ed entrano infermieri in vena di scherzare e medici col pollice alzato che si complimentano nel vedere quanto velocemente si stia rimettendo.
E, semplicemente, questo tempo cattivo passa, parole e gesti contribuiscono a far sì che succeda in fretta e in pochi giorni siamo di nuovo a casa a ricordarci di quanta premura sia stata percepita da tutti noi nel tempo trascorso in ospedale.
Pur non augurandoci di poterne avere di nuovo prova, é bello sapere che nei momenti di estrema fragilità, avremo buone probabilità di trovarci in ottime mani.
Elisa Cattini