Gioventù, amore e rabbia tra cinema, musica e teatro

A febbraio arrivano nelle sale cinematografiche due film presentati a Venezia 79: The son – il Figlio e Tar quest’ultimo, interpretato da una impeccabile Cate Blanchette, in odore di Oscar.

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Il premiatissimo drammaturgo francese Florian Zeller, anche sceneggiatore e regista, ha composto una trilogia teatrale incentrata su tematiche famigliari che riguardano il disagio, la malattia e le difficoltà affettive. Il suo primo capitolo The mother (La madre – 2010) ha debuttato a New York nel 2019. Poi è stata la volta di The Father (Il padre – 2012) seguita da The Son (il Figlio – 2018). Con l’aiuto dello sceneggiatore Christopher Hampton gli ultimi due titoli sono diventati dei film. The father – Nulla è come sembra (2020), è valso l’Oscar al protagonista Anthony Hopkins, l’Oscar alla miglior sceneggiatura non originale e la nomination come miglior film. The son – il Figlio è stato presentato in concorso a Venezia 79. A condurre la storia è Peter (Hugh Jackman) nel ruolo di un brillante avvocato in attesa di un importante avanzamento di carriera, divorziato da Kate (Laura Dern) con la quale ha avuto un figlio: Nicholas (Zen McGrath). Ma dopo alcuni anni il suo matrimonio si sfascia e si unisce a una nuova compagna, Beth (Vanessa Kirby) e diventa di nuovo padre del piccolo Theo. 

Il dramma comincia quando la prima moglie chiede aiuto all’ex-marito perché Nicholas, pieno di rabbia che non sa su chi sfogare, diserta la scuola e, in piena crisi adolescenziale, manifesta tutto il proprio senso di tradimento per l’abbandono del padre col quale adesso desidera tornare a vivere. Il genitore si ritrova così a vestire un ruolo che aveva allontanato, memore forse del proprio non del tutto risolto rapporto col padre, che puntualmente riappare interpretato con severa autorevolezza da Anthony Hopkins. Attore impeccabile, di nuovo al servizio di un personaggio che l’autore sembra aver disegnato esattamente sulla sua persona. 

L’adolescenza è stagione di insicurezza, di instabilità, di pulsioni ormonali difficili da governare. Il disagio esistenziale del ragazzo si rivela sempre più grave e l’aiuto medico rischia di peggiorare le cose e pone i genitori davanti a scelte difficili e di incerto esito. Aiutare chi non riesce a trovare un proprio posto nel mondo risulta impresa difficile e a volte disperata. Perché nemmeno tutto l’affetto del mondo, la disponibilità, la comprensione possono bastare a mitigare e a sollevare il ragazzo dalla sua sofferenza, peggiorata della ineludibile condizione di crescita anagrafica. 

Il regista pone l’accento sui legami famigliari presenti e passati, sul senso di colpa, sulla purezza dei sentimenti. Il racconto si riempie di pathos e spinge sul coinvolgimento emotivo dello spettatore. Questo a modesto avviso nuoce un po’ alla giusta distanza che un autore dovrebbe mantenere rispetto alla materia trattata. Ma forse quando l’autobiografia riaffiora, qualcosa sfugge di mano. Tuttavia la robustezza del racconto prevale e il dramma è contenuto entro confini perfettamente credibili e avvincenti. Merito indubbio anche di un cast di prim’ordine e di interpretazioni molto calibrate di vibranti personalità. Una menzione speciale va a Zen McGrath che dona a Nicholas tutta l’incertezza, l’insicurezza e la rabbia della sua giovane età.

Contemporaneamente a Il figlio, anche un altro film veneziano raggiunge le sale italiane. Si tratta di TAR, lungometraggio davvero lungo: 158 minuti. Ma posso assicurare che non un solo minuto è sprecato o superfluo. Le vicende narrate compongono la complessa ma fluida parabola professionale di Lydia Tar, prima donna a dirigere una importante orchestra tedesca di musica classica. Siamo a Berlino e i fantasmi dei Berliner coi suoi leggendari direttori aleggiano continuamente dentro e fuori lo schermo.

Il racconto mostra il maschilismo presente anche in questo ambiente estremamente competitivo e meritocratico, dove Tar è costretta sempre a dimostrare talento e competenza tecnica e musicale. Tra prove per l’incisone discografica della Sinfonia n.5 di Mahler, legami sentimentali che si infrangono di fronte all’infatuazione per una nuova violinista e intrighi di potere la narrazione scorre avvincente e drammatica e la parabola si chiude senza moralismi.

Il senso di realtà che si respira in questo film, anche grazie e non a causa della sua misura, è a dir poco impressionante. Varrebbe la pena vederlo nell’edizione originale non doppiata, per apprezzare la recitazione e il tedesco parlato da Cate Blanchett, che si direbbe madrelingua se la produzione non informasse che ha preso solo qualche lezione di tedesco. Il suo alternare l’inglese alla lingua del paese ospitante dovrebbe obbligare il distributore a rispettare l’edizione originale. Il regista dichiara di “aver scritto il copione appositamente per Cate Blanchett. Se avesse rifiutato, il film non si sarebbe fatto… l’abilità sovrumana e la verosimiglianza di Cate sono stati qualcosa di veramente sbalorditivo da vedere. Il privilegio di lavorare con un’artista di questo calibro è qualcosa di impossibile da descrivere adeguatamente. Sotto ogni punto di vista questo è il film di Cate”. Todd Field realizza così il suo terzo film dopo sedici anni da Little Children del 2006. E l’attrice ricambia la considerazione affermando: “Ho appena lavorato con Todd Field ed è stata un’esperienza fantastica perché con lui la collaborazione è davvero eccezionale”. Dichiarazioni che non appaiono espressioni promozionali di pura cortesia, ma il sincero bisogno di una coppia di artisti di esprimersi la reciproca stima. Stima che si percepisce in ogni singolo fotogramma. 

Ivan Andreoli

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