Violenza domestica, “impicciarsi delle vite degli altri può fare la differenza per molte donne”

Cosa possono celare le mura domestiche? Come la casa, luogo di protezione per antonomasia, può trasformarsi in una gabbia? Come le donne vittima di violenza possono trovare un riscatto? A questi e a numerosi altri quesiti ha cercato di rispondere lo psichiatra Giorgio Magnani. Il problema, spiega il medico, è quando si attua il processo di vittimizzazione: “troppo spesso i torti subiti possono diventare il perno su cui si cristallizza la percezione di sé. La vittima non cessa mai di sentirsi tale e costruisce la propria identità intorno alla sua sofferenza”.

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dottor Giorgio Magnani

“Quando mi avete invitato mi sono sentito bene e voluto e perciò ho accettato l’invito con piacere. Perchè si sa, la benevolenza genera autostima e gratificazione. Dà forza, ti fa sentire parte di qualcosa di grande”. 

Sono state queste le prime parole del dottor Giorgio Magnani, psichiatra, gruppoanalista e socio fondatore della Scuola di PolisAnalisi di Roma, che per anni ha prestato servizio presso il Centro di Igiene mentale di Carpi, in occasione del seminario Viaggio nella salute mentale delle donne vittime di violenza. Esperienze di cura e storie migratorie a confronto, organizzato a Carpi dalla Comunità Papa Giovani XXIII. 

Ma qual è il contrario di benevolenza? Cosa possono celare le mura domestiche? Come la casa, luogo di protezione per antonomasia, può trasformarsi in una gabbia? Come le donne vittima di violenza possono trovare un riscatto? A questi e a numerosi altri quesiti ha cercato di rispondere il dottor Magnani nel corso del suo intervento dal titolo, Quando la casa non protegge e le reti di supporto mancano. 

“Il contrario dell’essere benvoluto – spiega il dottor Magnani – si realizza quando si è costretti nella solitudine e non si ha alcuna possibilità di incontro, relazione e scambio. Questi due anni di pandemia hanno provocato un aumento della sofferenza psichica, soprattutto negli adolescenti. Sono cresciuti i disturbi del comportamento alimentare, lo stress, gli stati depressivi e sono vertiginosamente aumentati i casi di violenza domestica. Ciascuno di noi quando si trova in uno spazio grande e poco conosciuto perde ogni punto di riferimento, si sente più fragile e disorientato. La presenza di altre persone non costituisce alcun aiuto poiché sono sconosciuti. Dentro alle nostre case invece abbiamo punti di riferimento, conosciamo bene chi ci vive accanto… Ecco che allora quando tra le mura domestiche si oltrepassano i limiti e scoppia la violenza, proprio lì, nel luogo che più di ogni altro ci fa sentire al sicuro, io penso al terremoto”. Quando si scatena un sisma, e noi emiliani lo sappiamo bene, la casa improvvisamente “si trasforma in un luogo minaccioso, in una potenziale fonte di morte poiché le pareti possono crollare e noi rischiamo di rimanere sommersi dalle macerie”. Eccezion fatta per la sua prevedibilità, continua lo psichiatra, “la violenza domestica è come una scossa di terremoto. E ciò che crolla sono tutti i riferimenti affettivi. Le persone da cui si cercava benevolenza diventano una fonte di male e sofferenza”. E per raccontare lo stato di impotenza derivante dalla violenza e sperimentato da tante donne, lo psichiatra ricorre al cinema. A un’immagine potente, quella di Pilar, straordinaria protagonista del film spagnolo Ti do i miei occhi di Icíar Bollaín. “Pilar al solo sentir aumentare il tono di voce del marito si paralizza. In una scena perde le urine e con esse la sua dignità. La sua stessa identità e ammetterà Non so più chi sono. In caso di violenza domestica la vittima perde un affetto, vive a tutti gli effetti uno stato di lutto, ma come si può elaborare tale lutto se la persona è ancora lì, presente e minacciosa? La risposta è l’impotenza. La paralisi”.

La vittima viene mortificata al punto di perdere la sua identità di persona, trasformandosi in una cosa posseduta. “Un oggetto di cui disporre, che risponde ai bisogni del persecutore. La donna non esiste più. Il limite è infranto”, continua il dottor Giorgio Magnani.

Volo ut sis, diceva Sant’Agostino a proposito dell’amore: voglio tu sia quello che sei. “La violenza intrafamiliare è esattamente il contrario. Quando la casa crolla e se ne esce vivi, si incontrano persone che vivono la medesima situazione e si mette in moto un meccanismo di solidarietà che nulla toglie al dolore per le cose perse ma fa sentire meno soli. Si condivide ciò che resta, ci si dona reciprocamente speranza, perché, prima o poi, le scosse finiranno… nella violenza domestica invece la vittima è costretta all’isolamento. E’ paralizzata, incapace di chiedere aiuto. Non riesce a immaginarsi se non come vittima. Inoltre nessuno la va a cercare, perché diciamocelo, quasi nessuno si impiccia degli affari che si consumano dentro le case degli altri”.

Il dottor Magnani ha poi raccontato le storie di alcune donne. Donne molto diverse tra loro ma unite da un comune denominatore: un trascorso di violenza. “Una violenza inizialmente mai percepita come IL problema. Un vissuto che si limitava a restare a lungo sullo sfondo prima di essere riconosciuto e accettato come l’origine della propria sofferenza”.

Il problema, ammette lo psichiatra, è quando si attua il processo di vittimizzazione: “troppo spesso, infatti, i torti subiti possono diventare il perno su cui si cristallizza la percezione di sé. La vittima non cessa mai di sentirsi tale e costruisce la propria identità intorno alla sua sofferenza”.

La solitudine e la mancanza di una rete di sostegno, soprattutto se la donna è straniera, “acuiscono poi la difficoltà nel riconoscere nella violenza l’origine del proprio malessere. C’è bisogno – conclude lo psichiatra – di una vera e propria operazione culturale per riuscire a cogliere e a prestare attenzione a tutti quei segni che più o meno indirettamente riconducono alla violenza. Ricordiamoci che Pilar alla fine si salva grazie all’aiuto di un gruppo di amiche impiccione”.

Jessica Bianchi