Un altro detenuto è morto in carcere il 7 gennaio a Modena per aver inalato gas: è il terzo in appena venti giorni. In precedenza, un marocchino 27enne aveva tentato il suicidio a metà dicembre e nonostante i tentativi di soccorso era entrato in coma irreversibile, per poi essere dichiarato morto. Il 31 dicembre un macedone di 37 anni era morto a seguito, anche in quel caso, all’inalazione di gas da bombolette.
A queste morti si aggiungono in regione un altro suicidio avvenuto a Piacenza il 30 dicembre, un uomo tunisino di 27 anni che si trovava in isolamento e quella di un uomo pachistano di 40 anni nel carcere di Bologna, per cause ancora da accertare, il 3 gennaio.
“I detenuti – commenta Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria – usano spesso il gas delle bombolette che detengono legittimamente per cucinare e riscaldare cibi e bevande, per sballarsi, ma finiscono molte volte per perdere la vita. Spesso il gas diventa un sostitutivo di altre sostanze ed è difficile stabilire se c’era la volontà di suicidarsi, oppure se la morte è solo una tragica conseguenza”.
La situazione al Sant’Anna, così come in tutto il sistema carcerario italiano, “è drammatica e la carenza di personale la aggrava ulteriormente, basti pensare che all’appello mancano circa 5mila agenti”, prosegue Durante. In carcere poi ci finisce anche chi dovrebbe essere curato altrove, dai tossicodipendenti ai malati psichiatrici. La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e il passaggio alle nuove strutture regionali per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, le cosiddette Rems, ha rappresentato un significativo passo in avanti nel processo di abbandono della logica manicomiale ma le criticità non mancano.
“La riforma che ha sancito il superamento degli Opg non ha previsto un numero adeguato di Rems e molti malati psichiatrici finiscono in carcere dove non vengono curati in modo adeguato. Questo, unitamente al sovraffollamento, determina situazioni di invivibilità per tutti i detenuti e per il personale che subisce aggressioni continue. E’ del 7 gennaio la notizia di un detenuto che a Castelfranco Emilia ha letteralmente sfasciato l’ufficio del comandante. Contenere queste persone quando vanno in escandescenza è pressoché impossibile”.
Nel 2024 si è raggiunta la cifra record di 89 suicidi fra i reclusi in Italia, più 7 fra gli appartenenti alla Polizia penitenziaria. Al Sant’Anna di Modena in dieci anni, dal 2015 ad oggi, si sono verificati 5 decessi classificati come suicidi a fronte di 16 morti, è il quarto in Italia per gesti autolesionistici.
“Difficile leggere questo dato – spiega il garante regionale dell’Emilia-Romagna per i detenuti, Roberto Cavalieri – presumo che a concorrere sia l’alta percentuale di detenuti stranieri, ovvero persone con una qualità relazionale molto bassa col territorio, e che hanno manifestazioni autolesionistiche legate a problemi di tossicodipendenza. Inoltre Modena è passata dall’essere una casa circondariale di 300 unità a più di 500 e il sovraffollamento porta a una riduzione dell’accesso ai servizi. Aumentano gli utenti ma non le ore di formazione e lavoro e pertanto la disperazione cresce. In altre parole si allunga la fila di persone che non fa nulla e si dispera”.
La sostituzione dei fornelletti con delle piastre elettriche è un miraggio dal momento che tale intervento “richiederebbe finanziamenti e lavori non indifferenti. Si tratterebbe di centinaia di fornelletti elettrici e quindi l’assorbimento di elettricità diventerebbe molto alto e pertanto andrebbero rifatti gli impianti.
Alla spesa onerosa – continua il garante – si aggiungerebbe inoltre la difficoltà di collocare dei contatori per calcolare il costo dell’elettricità per ogni detenuto. Aldilà delle problematiche tecniche, tale sostituzione non risolverebbe il fenomeno del suicidio in carcere, dove se non è il gas è l’impiccagione, ciò che va messo in discussione è il sistema di prevenzione dei suicidi in carcere. Oggi i detenuti riescono a togliersi la vita con estrema facilità”.
Ma come si può fare prevenzione?
“Sul piano teorico – aggiunge Cavalieri – facendo dell’esperienza penitenziaria un’esperienza costruttiva, passando dal concetto di carcere come luogo di punizione dove le persone vengono deprivate di tutto e dove la sofferenza fa parte della restituzione della pena rispetto al danno fatto, a luogo con servizi formativi, opportunità occupazionali. In carcere si sta male, vi sono frustrazione, rabbia, angoscia… il progetto penitenziario dev’essere ripensato. Sul piano individuale invece il sistema deve prendersi il tempo di accompagnare il detenuto verso la rielaborazione del reato e di ciò che lo ha portato a delinquere, rendendo il tempo trascorso in carcere un tempo utile e non sottrattivo o di penitenza”.
Jessica Bianchi e Chiara Tassi