La Carpi degli Anni Settanta, quando si andava al Bar Roma coi Ray-Ban

“Era uso diffuso negli Anni ‘70 (e anche dopo) fare i fighetti con i prestigiosi Ray-Ban. Molti protagonisti de La Bella Carpi - spiega l’appassionato di storia locale, Mauro D’Orazi - li avevano sempre incollati al viso in primis Gigi Filiberti e, ancora, Gianpaolo Tarabini, Luciano Chiesi e tanti altri che facevano parata al Bar Roma”.

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Gianpaolo Tarabini e Luciano Chiesi

I mitici Ray-Ban, gli occhiali da sole simbolo del costume americano degli Anni Settanta, nati nel 1929 su richiesta del generale dell’aeronautica MacCready per proteggere i piloti dal forte bagliore delle altitudini elevate, diventarono oggetti cult anche a Carpi. “Era uso diffuso negli Anni ‘70 (e anche dopo) fare i fighetti con i prestigiosi Ray-Ban; la forma delle lenti a goccia con lenti verdi o marroni ci faceva sembrare dei grossi insetti. La montatura – spiega l’appassionato di storia locale, Mauro D’Orazi – era dorata con l’ambita versione dotata di cerchietto centrale sotto un listello di plastica chiara, si diceva antisudore; il tutto era completato da aste speciali con un finale avvolgente ed elastico dietro le orecchie! Molti protagonisti de La Bella Carpi li avevano sempre incollati al viso in primis Gigi Filiberti era ancora, Gianpaolo Tarabini, Luciano Chiesi e tanti altri che facevano parata al Bar Roma”.

Gigi Filiberti

Occhiali che avevano un antipatico inconveniente “dopo gli 80 km all’ora, gli occhi iniziavano a lacrimare dal momento che la loro stessa struttura creava turbolenze. Noi però, imperterriti, facevamo finta di nulla! Ciò che contava infatti era sfoderarli sulla nostra Honda 750 Cb Four”. L’importante infatti era possederli, esibirli, “tenerli con sussiego tra le dita una volta scesi dalla sella. Era come avere il mondo in mano”. Qualcuno, fortunato, era riuscito ad acquistarli direttamente negli States, scatenando l’invidia di chi lo circondava. “Li mostrava con orgoglio, infilandoli e togliendoseli con pose da attore. Si diceva che quegli esemplari, con speciali marcature che ne garantivano l’autenticità, – prosegue D’Orazi – erano di qualità ed estetica superiori rispetto a quelli comprati in Italia; un po’ come il sapore delle Marlboro prese in America in qualche duty free aeroportuale, anziché quelle confezionate dal Monopolio italiano. Probabilmente non era vero, ma ci piaceva crederlo”.

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