Oscar 2023, se questo è il nuovo che avanza…

“Che dire, il film che mi è piaciuto meno si è beccato 7 Oscar. Evidentemente ho sbagliato tutto. Everything everywhere all at once che maccheronicamente tradotto forse suonerebbe Tutto ovunque tutto in una volta è la storiaccia di una coppia cinese trapiantata in America che gestisce una lavanderia a gettoni”. La recensione del nostro critico Ivan Andreoli.

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Che dire, il film che mi è piaciuto meno si è beccato 7 Oscar. Evidentemente ho sbagliato tutto. Everything everywhere all at once che maccheronicamente tradotto forse suonerebbe Tutto ovunque tutto in una volta è la storiaccia di una coppia cinese trapiantata in America che gestisce una lavanderia a gettoni. Ma il fisco americano vuole conoscere un po’ più da vicino i loro affari e li invita a documentare le supposte detrazioni. E fin qui tutto bene, può capitare. Succede però che tutto intorno c’è una varia umanità, tra cui un nonno materno, tale Gong Gong, un po’ malconcio data l’età e una figlia, Joy, la cui relazione con un’altra ragazza, indispone non poco la madre. E anche questo può capitare e capita anche da noi. Restiamo infatti su un terreno tutto sommato realistico. Ma subito dopo entra in scena quello che forse è il vero protagonista del film: il metaverso. Difficile da definire e da individuare, per cui la mia visione ha cominciato a dare segni di inquieta insofferenza. Davanti alla diavoleria che si stava scatenando sullo schermo ero diventato uno spettatore passivo, dovevo rassegnarmi a sorbirmi tutti i 139 minuti della stralunata faccenda. Mi sono subito identificato non con uno dei personaggi, ma col povero Malcolm McDowell protagonista di Arancia meccanica, che con gli apriciglia agli occhi era costretto a subire le più efferate scene di violenza per redimersi dalla violenza che lui invece praticava con estrema eleganza. Ma io non avevo commesso nulla di male per essere sottoposto a una tale tortura. 

Qualcuno in sala ha regalato qualche timida risata in rari punti della storia. Avevo sospettato che un sottile segreto umorismo sorreggesse il tutto ma ho comunque cominciato a provare un vago senso di colpa per non aver afferrato la morale della storia e quegli illuminanti momenti ilari. Dentro di me ho sentito il peso dell’età (così distante dai giovanili risolini) e di una vita intera spesa dentro a cinema dove avevo gustato quasi tutta la storia del cinema, dal muto al sonoro, la Hollywood classica degli Anni ’30 e ’40 del Novecento, tutto il Neorealismo Italiano, la Nouvelle Vague francese, la stagione completa della commedia all’italiana, la Nuova Hollywood degli Anni ’70, il Nuovo Cinema Tedesco, la fantascienza di 2001 e Blade Runner, ma anche tutto il cinema di impegno civile italiano, latinoamericano, e delle emergenti cinematografie orientali e terzomondiste.

Allora mi sono messo di impegno. Ho pensato che questo era il nuovo che avanza e io non potevo restare ancorato ai miti del passato. E ho anche pensato che come emblematico esempio di un nuovo cinema gli avrei volentieri consegnato l’Oscar per il miglior film, naturalmente premiando anche i due registi perché dirigere una tale baraonda dev’essere costato loro una enorme fatica e un considerevole sforzo nello spremere le meningi. Ma sinceramente, non sto facendo una battuta! Quindi ineludibile l’Oscar alla regia a Daniel Kwan e Daniel Scheinert. E perché non premiare anche gli attori, che poveretti entrare in quei ruoli, tuffandosi nel metaverso senza neanche un salvagente, così, a mani nude, chissà che sacrificio. Per non parlare del montaggio: immagino il tecnico nel sovrumano impegno di isolare tra tutto il girato solo i 139 minuti davvero essenziali a costruire una storia con un senso compiuto che conquisti, sbalordisca e affascini soprattutto lo spettatore storico, cioè quello che capita al cinema ogni tanto, perché quella sera non sa dove andare, e non solo lo spettatore interessato, quello che frequenta i festival internazionali e i cineclub del Quartiere Latino a Parigi o le sale d’Essay di Modena e provincia. E infine avrei certamente assegnato uno strameritato Oscar a chi ha composto questa eccelsa vetta di arte contemporanea: una sceneggiatura così originale non la si era mai scritta. Da fonti bene informate che però desiderano rimanere anonime, sembra l’abbiano assemblata proprio nella lavanderia, sulla scrivania della protagonista, dove la si vede disperata a scartabellare tra quintali di ricevute e scontrini. Quelli che poi ha richiesto l’Agenzia delle entrate americana e ha dato l’incipit alla creazione. Secondo me, dato che ho azzeccato in anticipo i 7 Oscar realmente vinti, mi merito una iscrizione all’Academy ad Honorem, così l’anno prossimo voto anch’io e mi faccio un viaggetto a gratis a Los Angeles. Consiglio davvero a tutti la visione di questa perla. Fatemi sapere. 

Al secondo posto con 4 Oscar una nuova realizzazione di Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale, tratto dall’omonimo romanzo di Eric Marie Remarque che già Hollywood aveva portato sugli schermi nel 1930 per la regia di Lewis Milestone e poi rifatto per la tv americana nel 1979 da Delbert Mann. Il romanzo ebbe vita travagliata perché racconta la disillusione di alcuni soldati partiti volontari per la Prima Guerra Mondiale che vedono trasformarsi in tragedia quella che avevano immaginato una grande avventura patriottica. A causa di questi contenuti piuttosto antimilitaristi e di conseguenza inevitabilmente pacifisti, il libro fu messo al rogo dalla Germania nazista il 10 maggio del 1933. E anche nel resto d’Europa non se la cavò meglio.

L’autore, privato della cittadinanza tedesca, emigrò in Svizzera. Dato il tema si presume che anche questo nuovo remake diretto da Edward Berger che ha rappresentato la Germania e guadagnato l’Oscar nella categoria Miglior film Internazionale non abbia puntato solo sugli aspetti spettacolari, ma abbia riservato la migliore attenzione a personaggi e situazioni che tanto infastidirono e forse infastidiscono anche gli attuali guerrafondai che andrebbero perseguiti in tutto il globo terracqueo. Gli Oscar a Scenografia, Fotografia e Colonna Sonora non sono proprio indicativi di una scelta nel senso da me auspicato. Purtroppo non posso esprimermi oltre perché il film circola solo su Netfix e non essendo abbonato a quella piattaforma per ora non ne sono spettatore. 

Una menzione sincera, infine, per Brendan Fraser, eccelso interprete di un film tratto da una piece teatrale di enorme successo a Broadway. E’ andato a lui l’Oscar quale Migliore Attore Protagonista. Presentato a Venezia 79, diretto da Darren Aronofsky, The Whale mette in scena in un’unica oscura stanza la faticosa esistenza di un uomo molto grasso, costretto a stazionare su un robusto divano davanti allo schermo di un computer e a muoversi solo per poche necessità con l’aiuto di un deambulatore. La balena, così soprannominato dal titolo, insegna scrittura on line e ha accumulato 250 kg nel corso del tempo, in seguito al dolore per la perdita del proprio amante, morto suicida. Un amore che l’aveva portato ad abbandonare la figlia, che ora lo disprezza e lo insulta. La ragazza e la governante sono le uniche persone a cui lui non si nasconde. Ed è proprio il rapporto con la figlia il motore vero della storia. Fraser, costretto in un costume che confina organicamente con la sua pelle si muove a fatica e affida alla mimica facciale e alla profondità degli sguardi tutta l’espressività possibile, facendoci partecipi del suo dramma, rubandoci alla nostra quotidianità per tutto il tempo della visione. Visione che consiglio davvero e senza più nessuna ironia. 

Ivan Andreoli

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