Del maiale non si butta via niente. Un adagio popolare che esplicita il profondo legame che la nostra terra intrattiene da sempre con questo animale. D’altronde, come si legge nel testo realizzato dalla carpigiana Luciana Nora, Ogni lustro si cambia gusto, “Il maiale vive con noi e, fatto cibo, ci aiuta a vivere da millenni”. La macellazione casalinga per secoli ha accompagnato la vita dei nostri avi, una pratica tradizionale che esigeva mani ferme e stomaci forti. Un rituale eseguito con cura secondo tempi e gesti ben precisi.
Secondo il medico bolognese del Cinquecento Baldassarre Pisanelli, si legge nel testo della Nora, le caratteristiche e la funzione del maiale allevato per la macellazione dovevano essere le seguenti: “che non sia né troppo vecchio, né troppo piccolo, ma nell’età della gioventù consistente e allevato alla campagna, e maschio. Di copiosissimo e lodevol nutrimento alle persone che molto s’affaticano, mantiene il corpo lubrico e provoca l’urina… nuoce alle persone delicate e che vivono in ozio fa venir la podagra e la sciatica”.
Nell’ambito della conduzione famigliare mezzadrile l’allevamento del maiale, in funzione di un suo successivo consumo, rappresentava da tempo immemorabile un fattore di grande sicurezza. Non a caso, dire di un individuo o di una famiglia “L’ha miss al porc’ a l’ora sottintendeva il raggiunto benessere. All’ombra poiché da dopo che il suo allevamento divenne strettamente famigliare, il maiale, per tutto il tempo della crescita e ingrasso e successivamente alla sua macellazione, se ne stava al coperto. A lui – prosegue Luciana Nora nel testo – era riservato uno spazio chiuso (da cui la denominazione cius) in un edificio adiacente alla casa rurale denominato basso comodo. Era fatto uscire in pompa magna per la macellazione che rigorosamente si teneva nel periodo invernale.
Più di un proverbio esplicita questa regola indicando con precisione le date: Per Sant’Andrea (30 novembre) ciapa al porch per la Sea // E ste ‘na ‘l vo ciaper las’l ander fin a Nadel. Da Santa Lucia a Nadel al vilan al màsa al maiel. Per San Tomè (29 dicembre) ciapa al porch per i pe’. Per la Santa Epifania se al ‘nimel a l’n’è mia mort l’è in agunia”.
Subito dopo questa delicata e cruenta operazione che includeva la raccolta del sangue, la pulitura e raschiatura dalle setole e la macellazione, il maiale ritornava al chiuso delle pareti domestiche per la concia delle carni.
“Ridotto in fette di lardo salato, salsiccia, cotechini, salami, pancetta, prosciutti e quant’altro, – si legge nel capitolo dedicato al maiale de Ogni lustro si cambia gusto – in una primissima fase, fatto salvo i prosciutti e il grasso la cui salatura avveniva in cantina, tutto ciò che era insaccato veniva appeso a una pertica assicurata alle travi in legno della cucina. Lì, dove il camino rimaneva acceso, avveniva una primissima fase della stagionatura. Dopo qualche giorno le pertiche passavano nelle più fredde camere da letto che, sovrastanti la cucina, non erano propriamente gelide. Indi tutto era messo a conservare al fresco della cantina. Dal giorno dell’uccisione del maiale e per circa una settimana, la famiglia godeva di un’abbondanza inusuale, poiché bisognava dar fondo al più presto a tutte quelle parti di animale che non potevano essere sottoposte a conservazione: trippe, fegato, cuore, reni, polmone… Nulla veniva gettato comprese le ossa che, fatte bollire, producevano un brodo di base per zuppe e minestre di verdure… Il grasso che doveva durare un anno intero si costituiva come una scorta fondamentale per preparare i condimenti a minestre e polenta, per friggere, quale aggiunta a pane o gnocco”.
Il grasso di maiale era poi utilizzato come unguento nonchè come panacea per molti mali. Qualche esempio? Ecco una ricetta: “Per la tosse, due o tre teste d’aglio pestate con songia di porco, col quale si ungono ben bene le piante dei piedi quando si va a dormire ponendovi sopra panni caldi e in due sere si guarisce”. La macellazione era una festa per tutti, l’intera famiglia allargata vi partecipava, bambini compresi. Quel maiale, allevato con cura e amore, li avrebbe nutriti per un anno intero. Assistere a quel cruento spettacolo era considerato “normale”, il maiale era una preziosa fonte di ricchezza, fondamentale per il sostentamento della famiglia. Se ne doveva avere rispetto e nulla doveva andare sprecato. La carne per i nostri nonni e bisnonni era un lusso, il cibo della domenica e delle grandi occasioni. Un’abitudine che dovremmo rispolverare anche oggi, limitando il consumo di carne. Un consumo che dovrebbe essere critico e consapevole, per non favorire l’abominio degli allevamenti intensivi.
Ancora oggi, sul nostro territorio, vi sono famiglie che macellano suini in modo autonomo. Animali “adottati” da più nuclei famigliari che ne seguono passo dopo passo l’alimentazione e lo stato di salute. Tale materia a livello nazionale era regolamentata dall’art. 13 del Regio Decreto n. 3298 del 1928, che, a seguito di apposita ordinanza sindacale, autorizzava i “privati” a macellare presso il proprio domicilio, previa segnalazione al Servizio Veterinario territorialmente competente, al fine di consentire l’effettuazione della visita ispettiva delle carni per valutarne l’idoneità al consumo umano. Tale disposizione è stata abrogata da un Decreto legislativo del 2021 che ha attribuito alle Regioni la competenza per disciplinare tale pratica (la Regione Emilia Romagna lo farà entro la fine del 2022). Le indicazioni operative sono comunque chiare, la macellazione può avvenire tra il 1° novembre al 31 dicembre 2022 e dal 1° gennaio al 31 marzo 2023, limitatamente a massimo 2 capi per famiglia anagrafica ed è obbligatorio effettuare, con almeno 48 ore di preavviso, una specifica comunicazione al Servizio Veterinario dell’Azienda Usl di Modena. Oltre a seguire con dovizia stringenti norme igieniche, la macellazione deve avvenire nelle ore diurne e con l’impiego di una pistola a proiettile captivo penetrante. Al Servizio Veterinario spetta poi il controllo finale mentre tutte le carni e i prodotti derivati sono destinati all’esclusivo consumo famigliare e non possono essere commercializzati. Un modo per mantenere viva una tradizione antica e consumare carni provenienti da maiali “felici”, ovvero nutriti in modo sano ed equilibrato, e allevati con cura. Alle volte il passato non solo ritorna, ma insegna.
Jessica Bianchi