“Gli ospedali ucraini funzionano e quello di Carpi?”

“Nelle strutture ospedaliere ucraine i Pronto Soccorso hanno 3, 4 posti letti, dieci al massimo nelle grandi città. Tutto è stato decentralizzato all’interno di strutture pubbliche esterne ai nosocomi: lì medici di famiglia e specialisti lavorano insieme, ci sono posti letto dedicati ai pazienti. Chi deve fare visite è lì che si rivolge ed è lì che trova risposte, una scelta che di fatto sgrava fortemente il carico degli ospedali. In Pronto Soccorso vengono gestite solo le emergenze strette, da lì il personale non scappa come accade al Ramazzini. Non riesco davvero a capire perchè nel nostro Paese, e Carpi non fa eccezione, il sistema non possa essere ripensato. E’ necessaria una riorganizzazione generale: il sistema sanitario è come un processo produttivo e in quanto tale può essere rivisto per essere ottimizzato”.

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Chiara Lodi

“Gli ospedali ucraini funzionano e quello di Carpi?”. A lanciare la domanda, provocatoria, è la carpigiana Chiara Lodi, infermiera e coordinatrice medica di progetti specializzata in emergenza – urgenza nonché esperta in leadership e crisis management in ambito umanitario. 

Arrivata vicino a Kiev il 2 marzo scorso, quando la guerra era appena scoppiata, insieme a Medici senza Frontiere, vi è rimasta quattro mesi: “il sistema sanitario del Paese funziona bene; non abbiamo mai gestito ospedali, ci siamo occupati del rifornimento di farmaci e materiali e, in particolare, di formazione al personale. Il mio compito è quello di attivare o delle unità di emergenza o di creare dei progetti ad hoc sulla base delle necessità tesi a rifunzionalizzare e ottimizzare dei servizi già esistenti”.

Tra le priorità vi è senza dubbio il supporto psicologico: “abbiamo incontrato tante persone traumatizzate. Donne e bambini che fuggivano dal conflitto e che avevano dovuto fare i conti col lutto, coi morti per la strada… e poi la convivenza con gli allarmi anti bomba, le corse verso i rifugi, l’ansia, il senso di precarietà, la convivenza forzata nei bunker. Abbiamo organizzato dei training specifici per gli psicologi, creato dei percorsi per le vittime di violenza sessuale, pochissime quelle che si sono presentate, e dopo una formazione specifica abbiamo a nostra volta tenuto corsi su come reagire in caso di attacchi con armi chimiche”. Una narrazione, quella del conflitto, spesso ridotta a pura propaganda poiché il messaggio che deve passare è una costante “rivendicazione di forza. La gente muore, sia chiaro, e il numero delle vittime, probabilmente è sottostimato, ma questa guerra (ndr – che tanto impatta anche sulle nostre vite e sugli equilibri politici) è ben diversa dalle tante dimenticate in cui mi sono imbattuta, dallo Yemen all’Etiopia, al Congo. In Ucraina grazie alla mobilitazione di massa a cui abbiamo assistito non mancano cibo, acqua e beni di prima necessità e, sorprendentemente, eccezion fatta per alcune città bombardate, le cose continuano a funzionare. In termini umanitari fortunatamente ci siamo trovati di fronte a una situazione meno grave di quanto pensassimo”. 

In un rifugio anti bomba

Il modello sanitario ucraino è stato una sorpresa per Chiara Lodi: “nelle strutture ospedaliere del Paese i Pronto Soccorso hanno 3, 4 posti letti, dieci al massimo nelle grandi città. Tutto è stato decentralizzato all’interno di strutture pubbliche esterne ai nosocomi: lì medici di famiglia e specialisti lavorano insieme, ci sono posti letto dedicati ai pazienti. Chi deve fare visite è lì che si rivolge ed è lì che trova risposte, una scelta che di fatto sgrava fortemente il carico degli ospedali. In Pronto Soccorso vengono gestite solo le emergenze strette, da lì il personale non scappa come accade al Ramazzini. Non riesco davvero a capire perchè nel nostro Paese, e Carpi non fa eccezione, il sistema non possa essere ripensato. E’ necessaria una riorganizzazione generale: il sistema sanitario è come un processo produttivo e in quanto tale può essere rivisto per essere ottimizzato”. Ci sono persone che lo fanno di mestiere perchè non chiedere loro una consulenza? A cosa servirà concentrare enormi risorse per costruire un nuovo ospedale se il modello non cambia? Cosa finirà esattamente dentro alle Case di comunità? Tante frazioni nel nostro territorio sono rimaste a bocca asciutta dopo i pensionamenti dei medici di famiglia e il mancato ricambio generazionale, mentre in “Ucraina – prosegue Chiara Lodi – è lo Stato a stabilire di quanti medici di base ha bisogno e gli studenti di Medicina seguono tali indicazioni per essere certi di avere un lavoro pronto subito dopo la laurea. Qui gira tutto al contrario” e i buoi sono ormai scappati.

“Io non tocco più un paziente da alcuni anni ma ho imparato a rimettere in moto meccanismi inceppati in ambito sanitario. Come me tanti altri giovani professionisti hanno voglia di mettersi in discussione non solo all’estero, in condizioni durissime, ma anche qui, senza però trovare qualcuno che decida di investire sulle loro competenze”. D’altronde chiamata come consulente esterna per eseguire alcuni controlli relativi alla corretta differenziazione dei percorsi pulito-sporco all’interno delle case residenza anziani per evitare contaminazioni da Covid, Chiara si è vista servire il due di picche: “all’ultimo momento l’Ausl mi ha comunicato che lavorando sempre all’estero non avevo una conoscenza approfondita delle regole italiane e che quindi non ero idonea. Ogni tre mesi mi muovo verso un paese differente, le azioni da mettere in atto per il controllo delle infezioni fanno parte del mio lavoro, in Congo abbiamo fatto i conti con Ebola…”. Di questo passo la sanità pubblica è davvero destinata al tracollo.

Jessica Bianchi