Quanto si può sopportare prima che il corpo chieda aiuto alla mente?

La rubrica In punta di piedi di Elisa Cattini ed Evelyn Daviddi.

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Sono la più piccola di una famiglia numerosa, due fratelli di quasi 20 anni più grandi di me, una madre, un padre purtroppo mancato prematuramente. Ho vissuto un’infanzia felice, ho intrapreso il mio personale cammino dopo le superiori laureandomi in antropologia culturale, e a pochi mesi dal raggiungimento di quel traguardo mi sono innamorata dell’uomo che sembrava perfetto per me. Ci siamo sposati, abbiamo comprato un biglietto di sola andata per il Sud America e abbiamo viaggiato zaino in spalla per sei mesi. Davvero realizzata, felice ma non del tutto. Qualcosa continuava a risuonare in me come sbagliato. E così, nonostante mi sia arricchita di esperienze impagabili, sentii il bisogno di tornare. A casa mi aspettavano i miei affetti e per quanto mio marito avesse espresso il desiderio di continuare il nostro viaggio, convenne con me che era giunto il momento di tornare. Comprammo un appartamento e nel 2011 rimasi incinta della nostra prima figlia. Fu facile per me abbandonare le vecchie abitudini e la gioia di diventare mamma contribuiva a non farmi sentire nostalgia di nulla, ma per quanto mio marito dichiarasse di essere appagato, continuava a vivere come aveva sempre fatto. Ma senza di me. La birra con gli amici, tirar tardi la sera, viaggi da solo, abitudini che continuarono anche dopo la nascita di nostra figlia. Da lì ebbero inizio le nostre discussioni. Il mio lavoro che veniva sempre dopo il suo, l’accudimento di nostra figlia che era una prerogativa soltanto mia e presto diventai “quella che rompe”. Per le trasferte di lavoro, per le mie preoccupazioni nel vederlo rientrare alle 5 del mattino dopo aver alzato troppo il gomito, per l’idea che io volessi insegnargli la vita. Feci finta di niente, sopportai per il bene di nostra figlia. Finché un sabato mattina alle 5 mi chiamò per dirmi che aveva fatto un incidente. Corsi a prenderlo. Era ubriaco, un colpo di sonno lo aveva fatto uscire di strada, la mia macchina distrutta. Lui piangeva mentre io provavo solo una profonda rabbia per aver messo in pericolo la sua vita. Promise di cambiare, facemmo pace e rimasi incinta del nostro secondo figlio. Nemmeno questo lo convinse a cambiare le sue abitudini, anzi, provava ancora più rabbia nei miei confronti, rancore per aver dovuto rinunciare a tutto. Ogni sera tornava a casa dal lavoro ma era chiaro che desiderasse essere altrove. Iniziò ad arrabbiarsi se andavo dal parrucchiere, ero arrivata a nascondere una maglia o un paio di scarpe acquistate con i miei soldi per non farlo irritare ma mi riempiva di offese, anche davanti ai bambini, che tentai di ignorare in ogni modo, cercando di farlo ragionare, piangendo in silenzio e convincendomi che anche se non era più l’uomo che avevo sposato, stare assieme per i nostri figli era la cosa giusta da fare. E andai avanti per anni a subire violenze psicologiche, a vivere nella totale assenza di un supporto emotivo alla crescita delle nostre figlie da parte sua. Finchè nel 2017 mi diagnosticarono un cin 2. Avevo contratto il papilloma virus. Dopo un mese dalla rimozione, una sera rientrai a casa; mia figlia sul divano e lui chiuso in bagno su una chat erotica, Si giustificò dicendomi che “aveva voglia” perché dopo il mio intervento per un mese non potevo avere rapporti sessuali e scoprii che durante le trasferte in Brasile non si lasciò sfuggire qualche occasione. Da lì probabilmente, l’origine della mia malattia. Sopportai ancora finché nel dicembre del 2019 ebbi il mio primo attacco di panico che sfociò in un’ipocondria cronica. Ogni piccolo malessere mi faceva pensare al peggio tanto che accadde che, ipotizzando a una recidiva della neoplasia, persi quasi conoscenza nello spogliatoio della piscina mentre vestivo mia figlia. Fu allora che capii che non potevo andare avanti in quel modo, che la mia serenità era fondamentale per i miei figli, e nel febbraio del 2020, poco prima della pandemia, iniziai un percorso da una psicologa. Per lui quelle furono le prime avvisaglie che qualcosa in me stava davvero cambiando e sembrò cambiare anche lui. Ma la verità è che capii che per quanto potesse tentare di rimediare, quella diversa ero io. Indipendente, autonoma, più forte e decisa a riconquistare la mia felicità.
Ho atteso di essere abbastanza in forze per sopportare la separazione e quel giorno è arrivato il 21 dicembre con il deposito della sentenza di divorzio.
Oggi sono il genitore collocatario dei miei figli e mi sono innamorata di nuovo.
Spesso mi chiedo cosa o chi mi abbia dato il coraggio di salvarmi. Una frase della mia psicologa, forse: “Non puoi dare ai tuoi figli la responsabilità della tua felicità”.
Sto cercando di essere un buon esempio per loro, di dimostrargli quanto sia importante la fiducia in loro stessi e la consapevolezza del proprio valore.
Sono felice? Di sicuro più autentica di prima. Sono arrabbiata con lui per aver distrutto la nostra famiglia tanto quanto con me stessa per avergli permesso di farlo ma ora sono certa che non lascerò che la rabbia rovini la mia nuova vita conquistata con tanta fatica.