Accessibilità e inclusione, sono queste le parole chiave del libro Città inclusiva e senza limiti – Progettare luoghi per le persone nella società contemporanea scritto dall’architetto carpigiano Stefania Campioli.
Il testo rappresenta un vero e proprio rovesciamento del paradigma in fatto di urbanistica e progettazione delle nostre città: non più interventi “a pioggia” bensì sistemici e integrati attraverso l’adozione di “forme più inclusive e sostenibili di urbanizzazione” per superare finalmente la logica del singolo intervento. La città infatti non è solo la somma di più parti, di luoghi fisici, edifici o quartieri… al contrario rappresenta “un esempio di sistema sociale complesso che evolve e si caratterizza attraverso il cambiamento delle regole dell’interazione spaziale”.
Ogni luogo prima di essere reinterpretato o riqualificato non può prescindere dall’opinione di chi lo vive e, per Campioli, è necessario “sperimentare forme di coinvolgimento capaci di cogliere l’essenza dell’esigenza partecipativa”, consentendo ai “cittadini di portare ai differenti tavoli decisionali la rappresentazione delle esigenze connesse alle loro condizioni materiali e alle loro aspettative”. Fondamentale quindi che ogni nuovo progetto si misuri “con contraddizioni e conflitti, con situazioni ambientali delicate, col vissuto quotidiano delle persone”, dal momento che l’ambiente “condiziona fortemente le scelte e il comfort” stessi delle persone che lo vivono. Solo così, quindi, si potranno trovare “soluzioni capaci di rispondere alle varie forme di esclusione e costruire condizioni di convivenza”.
Lo spazio pubblico è per antonomasia dedicato alla collettività e dunque, afferma l’architetto Campioli, “non lo si può progettare o immaginare senza renderlo fruibile a tutti in autonomia”, perseguendo l’obiettivo di una città inclusiva, senza limiti e accessibile a tutti. Un’accessibilità che non riguarda solo le barriere architettoniche ma anche la mobilità, la percezione della sicurezza, la fruibilità dei servizi…
Il progetto di ricerca, poi diventato libro, di Stefania Campioli non vuol essere un “manuale di buona progettazione”, bensì uno spunto di riflessione per indurre un cambiamento profondo “nell’approccio progettuale”. L’architetto infatti individua le modalità che ogni amministrazione può “adottare per migliorare la fruibilità, la vitalità e l’attrazione (anche turistica) di una città” per renderla veramente la città di tutti. Nessuno escluso. Insomma Campioli offre una sorta di “cassetta di nuovi attrezzi” soprattutto di carattere culturale per un’urbanistica “più progettuale che regolativa”, anche alla luce di quanto messo in campo da altre realtà virtuose.
Rigenerare un territorio infatti non significa soltanto prendere in considerazione la “parte edilizia e tecnologica, bensì anche quella sociale, chiedendosi come migliorare la qualità di vita che vi si svolge”.
Occorre poi pensare “l’accessibilità di un sito come se fosse inserito in una rete di connessioni con altre località, altri servizi, altri riferimenti in cui le persone si muovono in un percorso a tappe diverso per ciascuno”.
Le nostre città sono profondamente mutate nel corso del tempo, organismi multiculturali sempre più complessi, si devono confrontare con sfide sociali – e ambientali – difficili. Ritrovare una identità collettiva è importante ed “esperienze di collettività non solo casuali ma desiderate e sperimentate” possono contribuire a “ritessere legami”, scrive Campioli. Ogni città ha dei limiti ma, sostiene l’autrice, “è possibile scegliere come viverli, se come un muro invalicabile oppure come soglia, occasione di contatto, di scoperta e di relazione… Inclusione allora vuol dire anche tenere dentro ciò che è marginale e comprenderlo nella città con processi pensati in modo quasi sartoriale, fatti su misura”. Ma come raggiungere l’obiettivo dell’inclusione? Prevedendo il “coinvolgimento degli abitanti nei processi decisionali”. Per progettare soluzioni efficaci occorre “partire dalle persone e conoscere bene la realtà nella quale si va a intervenire”. L’invito di Campioli alle amministrazioni è quindi quello di dialogare in modo funzionale con un campione rappresentativo di cittadini e di avere un osservatore diretto – chi? – sul campo. E’ finito il tempo “dei ragionamenti per compartimenti stagni” o per singoli settori della pubblica amministrazione, le competenze devono integrarsi.
Uno spunto interessante offerto dal volume è anche quello di procedere per step successivi per verificare la funzionalità di un progetto ed eventualmente raddrizzare il tiro. Sperimentare nello spazio pubblico significa anche ripensare il processo progettuale, “prevedendo interventi temporanei (ndr – vedi alla voce urbanismo tattico) per far vivere alle persone una realtà trasformata e raccogliere poi le impressioni e le sensazioni che queste avranno provato per modificare il progetto in base ai feedback ricevuti”. Interventi reversibili dove ogni elemento può essere spostato o rimosso per ridisegnare lo spazio pubblico e le sue funzioni magari in porzioni di “territorio abbandonate, non attrattive o nelle piazze del centro storico…”.
Insomma per Campioli è la “strategia globale” che deve mutare, così come il ruolo di chi amministra, non più il protagonista assoluto dei processi di gestione.
Un cambio di prospettiva che mette al centro della politica e della pianificazione urbanistica chi usa e vive la città, senza però mettere da parte l’azione progettuale del professionista incaricato e la definizione delle priorità capaci di rispondere agli obiettivi di progetto individuati in precedenza. Quali azioni sono necessarie? Cosa incide maggiormente? Cosa attiva un immediato cambiamento? Domande fondamentali che ogni amministratore dovrebbe porsi.
Scopo finale? “Creare una rete di connessioni urbane”, attraverso progetti capaci di tenere insieme “spazi, storia e identità” per rendere le città più belle, più sicure, più resilienti e più people-centred. L’invito di Campioli è dunque quello di “immaginare un futuro diverso in modo pro-attivo”. Una capacità di cui la nostra classe politica difetta da tempo.
Jessica Bianchi