Perdere un padre è un dramma, una mutilazione.
Perdere un padre in tempi come questo è un’atrocità. Non ci è consentito piangerlo, non ci è permesso di lasciare ai ricordi lo spazio che meritano affinché trovino posto e aiutino a superare il lutto. Perché la mente corre all’incombenza del pericolo successivo, che è un pericolo che a oggi si respira ovunque. Mia madre, mia sorella, mio figlio, io stessa e chiunque che, in qualche modo a contatto diretto e indiretto, possa rischiare la pelle. Ho pensato tanto a come far sì che questo articolo non risultasse una commemorazione. Mio padre era un grande uomo come lo sono stati tanti, troppi che hanno perso la vita. Ma credo che non ci sia altro modo se non mettere a nudo la mia esperienza per arrivare a fare emergere quanto questo momento sia decisivo ma soprattutto come sia stato possibile stringere virtualmente in un abbraccio coloro che fino all’ultimo hanno fatto il possibile per salvare la sua vita. E la nostra.
Quindi partiamo dai fatti, e che lui mi perdoni se ne parlo in maniera così poco filtrata.
Mio padre si è ammalato di quella che ancora oggi in tanti si ostinano a chiamare “poco più di una banale influenza”. Un uomo forte, di carattere, uno sportivo, l’amico, il fratello, il nonno a cui nessuno pensava potesse capitare. Ma ahimè, è accaduto.
E’ stata una caduta rovinosa, per parafrasare con parole che potrebbero essere le sue, una scivolata in bicicletta in discesa ad alta velocità. Partendo da un’assistenza domiciliare è passato nel giro di pochi giorni al reparto di area Covid del Policlinico di Modena, poi alla sub-intensiva e infine, facendo leva sulle sue poche forze rimaste, all’intensiva. Abbiamo trascorso giornate al telefono tra di noi a inventarci un ottimismo che troppo velocemente sbiadiva, abbiamo pregato un dio sconosciuto, abbiamo parlato con medici amici che ci hanno invitato a sperare fino alla fine e tutto questo lo si faceva a distanza e in attesa di ricevere, sempre più tardi la sera, una telefonata dal reparto. Che arrivava. Non puntale ma arrivava ed era quella che ci permetteva di modulare i nostri sogni e di non arrenderci. Ho ritirato gli effetti personali di mio padre che mi sono stati consegnati dentro un sacco di plastica rosa poco prima che morisse, ho trattenuto le lacrime davanti alla porta bianca della terapia intensiva e le ho lasciate sgorgare di fronte a un’infermiera esausta che ha pianto con me quando ancora, oltre la parete, la macchina faceva il suo dovere e teneva in vita mio padre, e noi con lui. Finché non abbiamo ricevuto la telefonata che non avremmo mai voluto arrivasse e la dottoressa che lo ha assistito con attenzione e cura non ci ha informato che era arrivato alla fine, senza soffrire ma giunto al traguardo.
Poteva finire lì. Tutto il resto poteva essere a nostro carico. L’elaborazione della perdita, la tremenda incombenza delle faccende pratiche che in realtà un po’ ti salva e ti aiuta a non cullarti in quel vuoto, il dolore di non poter abbracciare nostra madre perché aveva passato troppo tempo a contatto con lui, ma domenica sera, due giorni dopo la drammatica notizia, abbiamo ricevuto una chiamata dal reparto di terapia intensiva e riconosciuto la voce della dottoressa. “Ho chiamato per sapere come state”. Ci ha contattate per assicurarci che stessimo vivendo in una sorta di equilibrio emotivo che ci permettesse di andare avanti. Un atto non dovuto, lo sforzo immane ed esemplare di chi l’umanità ce l’ha dentro dal momento in cui sceglie di diventare medico e che in questo momento è messa a dura prova dalla disumanità e dall’indifferenza che spesso si respira fuori da quei reparti. Quanto ci ha commosso sapere che mentre si prendeva cura di nostro padre si stava prendendo in realtà cura di tutti noi. Quanta generosità deve scorrere in quelle anime che dopo turni massacranti e scenari inverosimili, ricordando che chi resta ha bisogno più che mai di essere sorretto.
Dovrebbe essere coniato un termine che vada oltre l’idea dell’eroe. Loro non vivono in sub universi inventati e fanno ogni giorno l’impossibile per restituirci quanto più di terreno e fondamentale ha abitato le nostre esistenze. Con gentilezza e con una nobiltà d’animo che a molti di noi è purtroppo sconosciuta.
Poco prima che ci chiamasse avevamo fatto recapitare un mazzo di fiori a nome della famiglia, i fiori che lei ci ha promesso che sarebbe andata a cercare. Ci ha informati che c’è una stanza pulita dove possono conservarli. Ci auguriamo li abbia trovati e che quelle poche parole di ringraziamento che noi abbiamo scritto col cuore possano aiutarla a resistere.
Elisa Cattini
“Grazie per ciò che fate ogni giorno: resistete”
“Perdere un padre in tempi come questo è un’atrocità. Non ci è consentito piangerlo, non ci è permesso di lasciare ai ricordi lo spazio che meritano affinché trovino posto e aiutino a superare il lutto”. Elisa Cattini racconta la perdita del padre, Tiziano, strappato ai suoi cari dal Covid, e l’umanità di tutti coloro che se ne sono presi cura sino al suo ultimo istante di vita. “Dovrebbe essere coniato un termine che vada oltre l’idea dell’eroe. Loro non vivono in sub universi inventati e fanno ogni giorno l’impossibile per restituirci quanto più di terreno e fondamentale ha abitato le nostre esistenze. Con gentilezza e con una nobiltà d’animo che a molti di noi è purtroppo sconosciuta”.