Ciò che non dimenticherò mai

La dottoressa Enrica Becchi è medico di Anestesia e Rianimazione da quindici anni all’ospedale Ramazzini di Carpi e ammette di non aver mai affrontato un’esperienza simile nella sua vita. “Nella solitudine si consuma il dolore senza che ci sia la possibilità di condividerlo insieme, all’interno del nucleo familiare, sostenendosi l’uno con l’altro”.

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La dottoressa Enrica Becchi

C’è un aspetto drammatico legato alla solitudine dei malati e dei loro familiari. Nel Reparto di Terapia Intensiva si consuma la lotta silenziosa del paziente contro covid 19 e chi ce la fa, al risveglio dal coma farmacologico, nemmeno può avere il conforto dei propri cari. Chi non ce la fa muore da solo e la notizia viene comunicata per telefono al congiunto in isolamento a casa per il rischio di essere stato contagiato. “Nella solitudine si consuma il dolore senza che ci sia la possibilità di condividerlo insieme, all’interno del nucleo familiare, sostenendosi l’uno con l’altro”. La dottoressa Enrica Becchi è medico di Anestesia e Rianimazione da quindici anni all’Ospedale Ramazzini di Carpi e ammette di non aver mai affrontato un’esperienza simile nella sua vita.

“La gestione del virus covid 19 – racconta – è nuova per tutti noi: non avevamo niente in mano che ci fornisse indicazioni per terapie efficaci a contrastare l’insufficienza respiratoria. Niente di tutto ciò che fino ad oggi conoscevamo sembrava funzionare e all’inizio si è fatto strada un forte senso di impotenza”.

Quale è stato il momento in cui ha avuto la percezione che si trattava di un’emergenza?

“La domenica pomeriggio del 15 marzo scorso. Ero di servizio insieme a una collega e continuavano ad accedere pazienti dal Pronto Soccorso per essere ricoverati in Medicina dove peggioravano velocemente al punto da dover essere ricoverati in terapia intensiva dove gli otto posti letto disponibili all’ospedale di Carpi non sarebbero bastati per tutti i pazienti”.

Quale è la criticità maggiore che avete superato?

“Proprio quella legata ai posti letto di Terapia Intensiva. La dotazione di otto posti letto, sufficienti fino a oggi per rispondere ai bisogni della popolazione carpigiana, sono stati in pochi giorni potenziati con l’aggiunta di due posti letto in reparto. Poi, l’intero blocco del comparto operatorio è stato convertito in terapia intensiva con ulteriori sei posti letto. Con una dotazione raddoppiata rispetto a quella iniziale siamo riusciti ad accogliere tutti i malati fino a oggi anche grazie alla disponibilità degli infermieri del comparto operatorio che si sono messi a disposizione”.

La carenza di medici in Anestesia e Rianimazione era già un dato di fatto prima del coronavirus, come fate fronte ai tanti pazienti?

“E’ vero, ci siamo fatti in quattro e sono arrivati in aiuto colleghi di Vignola e Pavullo. A loro si sono aggiunti gli specializzandi chiamati in servizio con un contratto libero professionale e per loro è stato il battesimo del fuoco ma non li abbiamo mai lasciati soli nella gestione delle difficoltà”.

A che livello è la stanchezza generale e la sua in particolare?

“Lunedì (ndr. 30 marzo) è stato il mio primo giorno di riposo dal 23 febbraio. Per più di un mese non sono mai stata a casa un giorno, compresi sabato e domeniche perché non c’erano più festivi. Lo staff è composto da quattordici persone, quattro medici uomini tra cui il primario Alessandro Pignatti e dieci donne, e nessuno si è risparmiato nonostante abbiamo tutti famiglie e figli alle prese con la didattica a distanza con tutte le difficoltà che comporta. Nessuno di noi ha rinunciato a rientrare a casa presso la propria famiglia scegliendo di stare in albergo o altrove. Abbiamo onorato anche i nostri doveri di genitori e forse ci è stato di aiuto per staccare dal lavoro qualche ora”.

Quanto ci mette per prepararti con tutti i dispositivi di sicurezza necessari?

“Il problema non è tanto la vestizione quando tutti i dispositivi sono puliti ma la svestizione quando serve un’attenzione maniacale: spogliarci è la fase più delicata perché è maggiore il rischio di contaminazione. Il timore di infettare altre persone è fonte di grande stress. Ho imparato a visitare i pazienti indossando tuta integrale, visiera, mascherina FFP e un doppio paio di guanti. In queste condizioni diventano più complesse le manovre ma ci si abitua”.

Qual è l’aspetto che più la preoccupa come medico di questa infezione virale?

“Sono crollate le convinzioni che fino a ieri avevano sorretto il nostro lavoro e non c’è una bibliografia alla quale fare riferimento per approntare terapie efficaci. I primi giorni, quando non c’era niente che ci supportasse sono stati duri. Poi l’applicazione insieme a Modena e a Reggio Emilia, dei protocolli sperimentali ha dato risultati incoraggianti così come abbiamo messo a punto un cronometraggio più efficace nelle manovre di pronazione”.

Avete sotto gli occhi segnali incoraggianti?

“Adesso sì, sicuramente”.

Le è mai capitato di cedere?

“No, ma io sono così”.

Cosa le manca di più in questo periodo?

“La libertà di uscire e andare a fare una passeggiata in centro a distrarmi guardando le vetrine dei negozi. Era il mio modo per rilassarmi, il mio spazio di decompressione. Vi farà sorridere ma è così”.

Sara Gelli