Quando un fatto può considerarsi una notizia?

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Vero, falso. Poco importa. Basta un post per scatenare l’inferno. Una testimonianza scritta distrattamente su un social per innescare una bufera senza fine e una sequela di commenti indignati. Il potere della Rete è indiscusso e obbliga chiunque faccia del giornalismo il proprio mestiere a interrogarsi. Misurarsi coi social è fondamentale: la maggior parte delle notizie è già lì, a portata di clic, alla faccia delle suole consumate e del cosiddetto “giro” di cronaca. Ma quando un fatto può considerarsi una notizia? Se le fake news viaggiano meglio e più in fretta delle altre c’è un singolo, semplicissimo motivo: siamo noi, non gli algoritmi, a incrementarne la viralità. Questo accade perché le notizie false attivano emozioni potenti. Paura, disgusto, indignazione. Prendono alla pancia, solleticano il nostro voyeurismo strisciante, tanto che, per contrastarle, spesso, non basta nemmeno l’autorevolezza della fonte.
La vita del giornalista 2.0 non è facile: diffondere notizie verificate, non prestando il fianco alle tante bufale che corrono on line, è tutt’altro che un gioco da ragazzi, dal momento che a essere “vero” è solo ciò che viene percepito. Quanto accaduto nei giorni scorsi in città ben esemplifica il meccanismo. Una signora sulla pagina Facebook A Carpi chi cerca trova, racconta di aver “assistito a una scena scioccante”. Camminando in via Bollitora, accanto alla scuola d’infanzia Agorà, che ospita un centro estivo, la donna scrive di aver sentito una bimba (“di circa 5 anni”) gridare disperata, “mentre due bimbi la tenevano stretta baciandola e toccandola in modo morboso” nel disinteresse generale degli  educatori. “Se non passavo di lì – conclude – non posso immaginare la disgrazia”. Il post è di quelli che scottano. I commenti non si contano. Il loro tenore è facilmente intuibile. Un fiume in piena. Inarrestabile. Poco importa se, come specificherà l’amministratrice delegata dell’ente gestore del centro, i tre protagonisti della vicenda hanno tra i 3 e i 4 anni. E poco importa se i piccoli, tendenzialmente, hanno la prerogativa di sgolarsi e di scoprire se stessi e l’altro attraverso il corpo. La morbosità – concetto avulso da bimbi di quell’età ma ben presente nella tastiera di chi scrive e commenta – ha vinto. Le spiegazioni addotte vengono liquidate come mere giustificazioni. Vergognose. Cosa sia accaduto davvero nel parco dell’Agorà, non ha alcuna importanza. I fatti – così come il senso critico – sono scomparsi nell’era dei social. E questa, forse, è l’unica realtà incontrovertibile.
Jessica Bianchi