Io ho alzato le mani perché tu mi hai innervosito moltissimo, così si giustifica l’uomo violento mentre la donna prova un senso di colpa perché continua a pensare che la famiglia funziona se lei è in grado di farla funzionare. Raggiunto l’apice della violenza segue la ‘fase cioccolatino’, in cui la donna viene trattata come una regina fino a quando, col passare dei giorni, non torna a montare la rabbia e niente la farà cessare fino a quando basterà un nulla, una parola non detta o un piatto in tavola, per farlo innervosire e alzare le mani.
A quel punto, lei le prova tutte per evitare di infastidirlo, rinunciando persino a uscire con le amiche, ma non si accorge che, così facendo, perde progressivamente il contatto con l’esterno, con la realtà, e inizia a convincersi di essere inadeguata in tutto: non è in grado di fare la spesa, di guidare l’auto e di accudire i bambini perché c’è sempre qualcosa di sbagliato in quello che fa, qualcosa che lo fa innervosire. Quando (e se) arrivano al Centro Antiviolenza, la loro personalità è completamente annullata dal senso di inadeguatezza e incapacità.
“E’ la violenza psicologica la più difficile da riconoscere e la più devastante perché impedisce di vivere” afferma la presidente del Centro antiviolenza VivereDonna onlus, Laica Montanari elencando le forme di violenza che comprendono quella fisica, economica e sessuale.
C’è chi chiama per fissare un appuntamento e chi si presenta alla porta: il Centro antiviolenza VivereDonna onlus ascolta, rassicura, indirizza e diventa un sostegno nel tempo, perché un incontro non basta: ci sono donne, di qualsiasi ceto sociale e qualsiasi grado di istruzione, che da tempo vengono qui solo per parlare e altre per verificare le strade per uscirne. “La maggior parte delle vittime di violenza pensa di trovarsi in una relazione che non funziona e non ammette che la causa sia la violenza. Nella violenza di genere, sono le vittime stesse a nascondere le prove per lungo tempo. Dalla negazione del quadro esatto della loro relazione, parlando qui con altre donne, arrivano a maturare durante il percorso la consapevolezza che il loro marito o compagno non cambierà su loro richiesta: ci vuole tempo per riconoscere che la propria situazione non è sanabile ma è solo scavando dentro di sé e riflettendo sulla propria condizione che le vittime trovano la strada” afferma Montanari.
Il primo passo è: dare un nome a quello che si sta vivendo superando la fase di negazione di episodi che appartengono al vissuto della donna. Dopodiché si passa alla valutazione del rischio perché in gioco c’è la vita e le donne devono sapere cosa fare quando si mette male e sentono di essere in pericolo: l’uomo che afferra per il collo o che ha in casa delle armi, per esempio, è più pericoloso di quello che con uno schiaffo fa saltare un dente. “Uomini violenti non si nasce e la relazione di potere si apprende all’interno del contesto familiare e sociale: per questo motivo, oltre all’accoglienza delle vittime, Centro Antiviolenza Vivere Donna onlus promuove iniziative di informazione e prevenzione nelle scuole: cerchiamo di trasmettere il messaggio che bambine e bambini, ragazze e ragazzi possano sentirsi libere/i rispettandosi a vicenda”
conclude Laica Montanari.
Sara Gelli