“Come mio nonno sopravvisse all’inferno”

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Ci sono storie che vogliono essere scritte. Non le puoi contenere. Prima o poi ti tornano a cercare per essere raccontate, impresse indelebilmente sulla carta, come i segni che hanno lasciato nell’anima di chi le ha vissute.
Una di queste ha per protagonista Antonio Muscaritolo, muratore ed ex militare di origini irpine nato nel 1921 e scomparso nel 2009: nel 1943 ha vissuto una delle esperienze più drammatiche che l’umanità abbia mai conosciuto, la deportazione in un lager nazista.
Dopo anni di silenzio, ha deciso di riportare alla memoria quei giorni grazie alla nipote Deborah Muscaritolo, 38enne carpigiana docente di lingue straniere, che li ha fissati in un intenso e toccante romanzo alla sua seconda edizione completamente rivista e aggiornata: All’alba saremo liberi edito da Eclypsed Word.
Deborah, nel romanzo narri la storia di tuo nonno al tempo della sua deportazione nel lager tedesco di Dora-Mittelbau. Come è stato per lui raccontarti quel periodo della sua vita?
“E’ stato molto difficile, tanto che per ben 60 anni non ne ha voluto parlare con nessuno. Io stessa ho scoperto la sua storia all’età di 25 anni: sino a quel momento ne avevo avuto solo notizie frammentate. Ho cercato a volte di porgli delle domande per farmi raccontare cosa era capitato, ma ha sempre opposto dei fermi rifiuti che manifestavano una forte sofferenza, motivo per cui ho smesso presto di chiedergli di parlarmi di quel periodo.
Con il tempo però il suo desiderio di raccontare, per liberarsi forse anche di un peso che aveva portato dentro per tanti anni, ha cominciato a farsi strada. Sono stata proprio io a convincerlo definitivamente a raccontare, perché avevo capito che dentro di sé sentiva l’esigenza di parlarne anche se era combattuto. Gli ho detto che il suo vissuto aveva un grande valore, sia per me che per tutte le generazioni, e che la sua testimonianza doveva essere trasmessa. Sono state tre ore di racconto senza interruzioni in cui lucidamente ha ripercorso tutto il periodo della deportazione”.
Che tipo era tuo nonno e che rapporto avevi con lui?
“Era una persona molto tranquilla, pacata e gentile. Un lavoratore con una grande forza d’animo. Amava molto la musica, che l’aveva aiutato a superare il doloroso ricordo della deportazione.
Non parlava molto, ma noi ci capivamo benissimo solo con gli sguardi o poche parole. Avevamo un rapporto di grande affetto. Nonostante la sua terribile esperienza, non aveva perso l’ironia ed è sempre stato per me un esempio di bontà e rettitudine.  Ha deciso di rivelare a me la sua storia per la prima volta perché, mi ha detto, “sapevo che tu mi avresti creduto”. Infatti, dopo il ritorno in patria non fu creduto né dal comando militare né dai suoi concittadini, in quanto ciò che aveva vissuto era davvero fuori dall’immaginario e le informazioni sui lager nel suo paese arrivarono solo molto tempo dopo. Nel 2003 ha desiderato tornare al Dora per rivisitare quei luoghi e io e mio padre lo abbiamo accompagnato. Lì ci ha mostrato i luoghi in cui era stato e da quel viaggio è nato anche il titolo del libro, che abbiamo deciso insieme ed è rappresentativo dell’elemento che lo ha tenuto in vita: la speranza”.
Quali sono i momenti e le reazioni che ti sono rimaste più impresse della sua testimonianza?
“Mi hanno impressionato il suo coraggio, la lucidità nello studiare ogni dettaglio nel campo per capire come sopravvivere, oltre al grande altruismo che lo spingeva ad aiutare gli altri deportati, nonostante fosse proibito e quindi pericoloso per lui.
I momenti della sua storia che mi hanno maggiormente colpita sono anche quelli in cui ha corso i maggiori pericoli, ovvero la malattia che ha rischiato di ucciderlo, la fuga e, sicuramente, non per ultimo, il fatto di aver detto no alla collaborazione con la Germania in cambio della libertà”.
Si fa sempre un gran parlare dell’importanza della memoria per non ripetere gli stessi errori. Eppure ancora oggi nel mondo occidentale si costruiscono muri…
“Esattamente, se invece si riflettesse maggiormente sulle situazioni e su ciò che comporta, se le si analizzassero senza la paura della diversità, senza utilizzare una logica individualista e prepotente che non dà il giusto valore a tutte le vite umane, allora ci si accorgerebbe che quei muri non andrebbero costruiti, e si aprirebbero invece nuove strade e opportunità.
Se mio nonno fosse ancora in vita ci direbbe di essere aperti nei confronti del prossimo, accogliendo le diversità senza pregiudizi e timori. Ha insegnato a tutti noi della sua famiglia ad aiutare sempre le persone in difficoltà e credo vorrebbe questo da tutti noi che siamo ancora qui oggi”.
Chiara Sorrentino