Gli interpreti e la storia

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Coniato dall’antropologo cubano Fernando Ortiz Fernández per indicare il processo di passaggio e riadattamento creativo che subiscono alcuni elementi di cultura quando vengono assorbiti da un’altra, il termine transculturazione è oggi, in tempi di incontri e, troppo spesso, scontri di civiltà, più attuale che mai.  Altrettanto si avverte, più che mai, il bisogno di traduttori di culture, capaci di  insegnare a instaurare o riprendere il dialogo ai fanatici dei muri, dell’una parte e dell’altra. Presupposto per il dialogo e lo scambio tra storie e tradizioni differenti sono, naturalmente, il linguaggio e i suoi sacerdoti, gli interpreti: se spesso si pensa a questa come a una categoria di meri esecutori, semplici medium attraverso i quali far transitare un messaggio che resta identico nel percorso dall’emittente al ricevente, a gettare uno sguardo più approfondito sul fascino e l’importanza di questa professione ci ha pensato la ventiquattrenne carpigiana Sara Iacobbe, neolaureata all’Università per interpreti e traduttori Carlo Bo di Bologna con una tesi dall’emblematico titolo: Come gli interpreti possono salvare, cambiare o distruggere il mondo. Interpreti supereroi quindi? Più realisticamente, attori di primo piano che, molto più spesso di quanto si potrebbe supporre, con le proprie scelte, azioni, omissioni e addirittura aggiunte alle frasi da tradurre, hanno giocato un ruolo fondamentale nelle vicende della storia, orientando – e persino determinando – l’esito di delicati negoziati. “Il ruolo dell’interprete – spiega Sara – è spesso sottovalutato, venendo associato a una macchinetta che svolge il proprio lavoro meccanicamente. In realtà nella traduzione entrano in gioco altri fattori di primaria importanza quali il contesto, le finalità della traduzione e la valutazione dei soggetti coinvolti; altrimenti chiunque, solamente conoscendo la lingua, sarebbe in grado di interpretare”. Gli interpreti, come suggerisce Sara riprendendo la metafora di una nota studiosa, sono “acrobati che devono riuscire a mantenersi in equilibrio anche nelle situazioni in cui sussiste un alto rischio di commettere un errore”. E a volte il filo può essere molto sottile: “non devono limitarsi alla mera traduzione, ma occorre che conoscano profondamente la cultura nella quale operano. La storia sarebbe stata diversa da come la conosciamo senza l’intervento degli interpreti. Basti citare, a tal proposito, l’episodio dei dragomanni, mediatori – e, potremmo aggiungere, interpreti ante litteram – tra l’impero Turco e le potenze europee. Nel 1655, a Londra, un dragomanno fu chiamato a tradurre una lettera inviata dal Sultano turco al re d’Inghilterra. Nella versione originale della missiva il sultano invitava la Gran Bretagna a continuare il rapporto di sudditanza nei confronti dell’impero turco, mentre nella versione ufficiale l’interprete travisò il contenuto della corrispondenza, sottolineando l’interesse, da parte del sultano, a mantenere un rapporto di paritaria lealtà. Il dragomanno conosceva molto bene le due culture, e fu costretto ad abbassare i toni e cercare una traduzione meno fedele per evitare che scoppiasse una guerra”. Non sempre però, nel corso dei secoli, l’esperienza e l’abilità degli interpreti sono state utilizzate nel migliore dei modi: “nel caso del trattato di Uccialli, stipulato tra Italia ed Etiopia, il nostro Paese tentò di modificare l’articolo 17, nella cui versione originale lo stato africano conservava l’indipendenza, in una versione in italiano dove esso diveniva ‘magicamente’ un protettorato italiano. C’è anche questo infelice stratagemma traduttivo all’origine della successiva guerra d’Abissinia”. Se possibile ancor più drammatico, come emerge dalla tesi di Sara, l’errore di traduzione che contribuì al tragico bombardamento che, il 6 agosto 1945, rase al suolo la città di Hiroshima, causando la morte istantanea di oltre 60mila dei suoi abitanti. “A tutti noi sono note le dinamiche storiche, ma pochi sono a conoscenza del fatto che, quando il primo ministro giapponese Kantaro Suzuky, intervistato dopo una conferenza stampa circa le sue intenzioni in merito all’ultimatum lanciato dagli Stati Uniti, rispose con il termine ‘Mokatsu’ (termine che presentava la duplice possibilità di traduzione, vale a dire ‘rinvio la questione’ o ‘l’ultimatum non è degno di nota’) l’interprete, non essendo del tutto consapevole delle conseguenze che un errore avrebbe potuto comportare, tradusse con la seconda accezione, contribuendo a scatenare il micidiale attacco da parte degli Stati Uniti”. Oltre che sul palcoscenico della grande Storia, gli interpreti possono però giocare un ruolo anche nel nostro presente, in tutte le piccole storie di mondi che si incontrano attraverso l’immigrazione: “oggi la figura del mediatore culturale è richiesta praticamente ovunque. Talvolta, specialmente in ambito giuridico, gli immigrati sono stati vittime di incomprensioni linguistiche, come nel caso di una cittadina bengalese che, a causa di una traduzione approssimativa, era stata accusata di avere ucciso il marito, mentre era del tutto innocente e solo due anni dopo l’arresto fu riconosciuta estranea al fatto dopo aver potuto beneficiare dei servizi di un interprete professionista. In definitiva l’adattamento e la capacità di fare da filtro sono prerogative necessarie per questa professione, specialmente quando sono in ballo vite umane. Bisogna sempre essere preparati al meglio, possedere piena consapevolezza dell’importante ruolo che si è chiamati a svolgere e non abbassare mai la guardia”. Come a dire che la traduzione non è per tutti. In caso contrario non ci troveremmo, molto probabilmente, al punto in cui siamo.
Marcello Marchesini