Spezziamo il girotondo della violenza

0
671

“Ho sempre sospettato che mia moglie mi tradisse. Me lo ha fatto pensare lei, perché era sempre più fredda con me. Si attardava a lavoro, un paio di volte è uscita con le amiche … Allora io la buttavo fuori casa col bambino e le dicevo che era una puttana. Che mi tradiva. Però lo dicevo in preda alla rabbia, non intenzionalmente. E quando usciva dalla porta, allora, le correvo dietro e le chiedevo scusa”. E, ancora, “In fondo non credo di essere una persona che possa essere definita violenta. In fondo quella sera, quando abbiamo litigato, lo schiaffo che le ho dato non era così forte”.
Sono solo alcune delle frasi pronunciate dagli uomini che si sono rivolti al Centro Liberiamoci dalla Violenza – inaugurato alla fine del 2011, presso il Consultorio Familiare di via Don Minzoni, 121 a Modena – unico esempio in Italia di struttura pubblica dedicata al trattamento di autori di maltrattamenti. Il centro è gestito dall’Azienda Usl di Modena e l’accesso è completamente gratuito. L’obiettivo della struttura è quello di intervenire sui comportamenti degli autori dei maltrattamenti, affiancando così i servizi già esistenti per la protezione delle vittime delle violenze domestiche. Per arginare il fenomeno è infatti fondamentale riuscire a entrare in contatto non solo con chi subisce maltrattamenti, ma anche con li attua, giorno dopo giorno. “Il nostro primo obiettivo – spiega la sociologa Monica Dotti, coordinatrice del progetto LDV – è quello di concorrere al supporto e alla protezione delle donne. Per farlo, siamo convinti che sia fondamentale lavorare su coloro che esercitano violenza. In fondo se non agiamo sugli uomini, questi continueranno a scegliere altre compagne e a perpetrare nuovi soprusi”.
Ma un uomo violento può davvero cambiare? Come lo si può aiutare a controllare la propria aggressività?
“Quando questi uomini vengono al centro, la prima a cessare è la violenza fisica. Per quella psicologica, invece, occorre più tempo”, aggiunge Monica Dotti.
Il centro si avvale di tre psicologi Giorgio Penuti, Alessandro De Rosa e Paolo De Pascalis, formati da esperti di Alternative To Violence di Oslo, il più importante progetto europeo nel trattamento degli uomini autori di violenze, diretto dal professor Marius Rakil. “Non sono le donne che devono cambiare i “loro” uomini. Non spetta a loro farlo. C’è un servizio – prosegue la dottoressa Dotti – che può farsene carico. Gli uomini autori di violenza domestica devono imparare ad assumersi le proprie responsabilità e a capire che ogni loro gesto ha delle conseguenze. Non si cambia mai da soli, ma col giusto aiuto si può fare molto per migliorare”.
Dottoressa chi sono gli uomini che si rivolgono a voi?
“Il Centro, dal 2 dicembre 2011 a oggi, è stato contattato da 243 persone: 84 uomini per avere informazioni o richiedere un appuntamento, 40 donne che hanno chiesto delucidazioni per inviare il proprio partner e 119 persone interessate a vario titolo all’argomento. Attualmente sono in trattamento individuale 25 uomini (dall’8 marzo ha avuto inizio anche una sperimentazione di terapia di gruppo con 8 uomini) con un’età compresa tra i 27 e i 65 anni. Sono operai, artigiani, piccoli imprenditori, bancari, insegnanti dirigenti, rappresentanti, impiegati, pensionati, disoccupati e professionisti sanitari. Il livello di studio medio è quello di Scuola media superiore ma abbiamo anche 6/7 laureati. La metà di questi uomini è separata e il 90% ha figli. Il 50% dei nostri utenti è stato denunciato dalle proprie compagne”.
In cosa consiste il percorso di affiancamento?
“Il trattamento dura circa un anno e il primo passo è l’assunzione di responsabilità. Gli uomini devono riflettere sulle proprie azioni, ripensando a un avvenimento violento eclatante o al più vicino nel tempo. Ripercorrere i movimenti fatti, risentire le emozioni e i sentimenti provati, ricordare dov’era la propria partner… insomma rivivere la scena. Attraverso tali ricostruzioni, seppure minimizzate o sminuite dagli uomini, si evince che non vi è da parte loro alcuna perdita di controllo, come comunemente si potrebbe pensare. Al contrario vi è consapevolezza: uno schiaffo o una spinta diventano strumenti per tacitare la partner, per zittirla. E’ un esercizio di potere sulla donna, per controllarla.
Gli autori di gesti aggressivi devono quindi prendere coscienza dei segnali che anticipano la violenza e imparare le strategie necessarie per spezzare tali comportamenti distruttivi. Accettando la propria responsabilità e l’intenzionalità dei propri gesti, le sequenze della violenza possono essere scomposte. Questi uomini possono cambiare, mettendo in atto azioni riparative”.
Vi sono uomini in cura che hanno alle spalle storie di violenza?
“Fare un focus sulla storia personale di questi uomini è fondamentale per capire se la violenza ha in loro radici remote; se sono cresciuti in un ambiente famigliare – o culturale – dove la violenza era accettata o, quantomeno, tollerata. Circa la metà degli uomini che manifestano comportamenti violenti hanno avuto di fronte, durante l’infanzia, un modello genitoriale aggressivo. Ricordiamoci sempre che questi uomini conducono vite esemplari sul lavoro, nella sfera sociale. Apparentemente impeccabili, nella vita relazionale, agiscono con violenza”.
La violenza genera
violenza…
“Esatto. Gli uomini devono comprendere che le loro azioni hanno delle conseguenze, lasciano segni e provocano effetti gravissimi e dolorosi su compagne e figli. L’uomo deve riconoscere che la violenza dipende da lui. Un uomo che agisce in modo aggressivo deve essere conscio di arrecare un danno anche ai propri bambini, rischiando di generare un circolo vizioso nel quale la violenza si protrarrà nel tempo. I figli maschi introietteranno il modello relazionale distruttivo del genitore e le figlie, pensando che la violenza sia intrinseca alla coppia, sceglieranno a loro volta uomini violenti”.
Qual è il tasso di recidiva?
“Terminato il percorso, fissiamo dei momenti di follow up con questi uomini a 6 mesi, un anno e a due anni dalla fine del trattamento per vedere se c’è stata recidiva. Il tasso di reiterazione dell’agito violento si aggira intorno al 15/20% ma il monitoraggio dovrebbe protrarsi più a lungo nel tempo”.
Definirebbe violenta la cultura italiana?
“Certamente. Tutti noi, spesso, legittimiamo alcune forme di violenza, pensando siano tollerabili. Quando sculacciamo nostro figlio pensiamo di esercitare un’azione educativa e, pertanto, giusta. Anche un uomo che malmena la moglie pensa sia un gesto educativo. La violenza non va mai agita. Quando cediamo ad essa dobbiamo riconoscerlo, non cercare giustificazioni. Dobbiamo assumerci la responsabilità dei nostri comportamenti, dichiarando ad alta voce che la violenza non deve trovare spazio nelle nostre relazioni”.
Come si può favorire un cambiamento culturale?
“L’intera società deve farsi carico di questi temi. Istituzioni, strutture sanitarie e privati devono fare rete e unirsi per sensibilizzare la cittadinanza, per educarla ai temi del rispetto dei generi e per sradicare modelli culturali che, purtroppo, fanno ancora parte del dna del nostro Paese. Un’azione che dovrebbe partire sin dalla scuola materna, laddove i più piccoli, attraverso il gioco, imparano ruoli stabiliti. Una bambina non dev’essere educata alla tolleranza, all’accettazione e alla pazienza solo perchè è femmina. Sono ancora troppe le donne vittima di violenze che si sentono in colpa, che credono di non aver fatto abbastanza, che provano vergogna nel recarsi in Pronto Soccorso per essere medicate e migrano da un ospedale all’altro, in giro per la Provincia”.
Quanto ci costa la violenza di genere?
“Alcuni studiosi di Oslo hanno recentemente fatto una ricerca: la violenza in Norvegia, coi suoi 5 milioni di abitanti, costa circa 650 milioni l’anno. Tale cifra, in Italia, coi suoi 60 milioni di abitanti, potrebbe sfiorare i 7 miliardi e mezzo. La dimensione economica della violenza – in termini di mancate giornate lavorative, di spese mediche, legali e di accesso ai servizi – è uno dei tanti temi che il nostro Paese non affronta. Dovremmo essere più pragmatici nell’aiuto, decidendo cosa fare e con quali risorse. Il sistema pubblico non può farsi carico di tutto ciò: lo ripeto, è necessario che la società civile promuova un benessere collettivo. Tutte le forze devono chiamarsi a raccolta per supportare in modo allargato, adeguato e capillare le donne. E non dimentichiamo che in Emilia Romagna 1 donna su 4 subisce violenza (in Italia è 1 su 3)”.
Jessica Bianchi