“Basta trivelle in Emilia”

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“Sgomberiamo immediatamente il campo da equivoci: il terremoto del maggio scorso è stato un sisma naturale ma spetta alla Commissione Internazionale di Errani escludere che il disequilibrio causato dall’estrazione di idrocarburi, non adeguatamente compensati nel sottosuolo, unitamente alla reiniezione dei fluidi di scarto in presenza di faglie attive, ne abbia accelerato la venuta”. A parlare è Elisabetta Sala, attivista del Movimento No Triv di Reggio Emilia, comitato di cittadini contrario alla ricerca di idrocarburi in Emilia e allo stoccaggio sotterraneo di gas. Pratiche pericolose e dalla pesante ricaduta ambientale. Ma andiamo con ordine. A destare la preoccupazione degli attivisti è la “silenziosa” proliferazione di permessi di ricerca idrocarburi – metano e petrolio – e permessi già concessi sul nostro territorio. Fatti che la cittadinanza ignora e le amministrazioni locali tacciono. “Questa improvvisa virata sulle fossili è a dir poco inspiegabile. Basti pensare – prosegue Sala – che il nostro, è il secondo Paese al mondo per importazione energetica: acquista infatti circa il 90 per cento dei combustibili fossili dall’estero. Agip ed Eni, dal Dopoguerra, hanno trivellato l’Italia da Nord a Sud, scavando migliaia di pozzi ed estraendo risorse fino al loro esaurimento, eppure la provincia di Reggio Emilia, così come il resto dell’Emilia Romagna, continua a essere nel mirino delle compagnie petrolifere (ndr – il nostro Paese è un paradiso per le compagnie petrolifere perché le royalties che pagano sono le più basse del mondo. Se in Danimarca la percentuale da pagare allo Stato sull’estratto a terra è del 50%, in Italia è al 10%. Conviene anche per la cosiddetta franchigia: nel Bel Paese al di sotto delle 20mila tonnellate di greggio non si pagano tasse)”. Nell’occhio del ciclone è, ora, la compagnia australiana Po Valley per l’installazione di tre pozzi di estrazione di idrocarburi a Canolo e Budrio, frazioni di Correggio. L’istanza di permesso di ricerca denominata Cadelbosco di Sopra, al momento depositata in Regione in attesa della valutazione di impatto ambientale, non va giù al comitato No Triv: “il progetto interessa i comuni di Correggio, Bagnolo, Cadelbosco, Campagnola e Rio Saliceto, un’area già esplorata e sfruttata in passato da Eni. La concessione copre l’area della vecchia Concessione Correggio dove Eni trivellò 52 pozzi a diversi livelli di profondità, molti dei quali risultati sterili o antieconomici, mentre altri furono resi produttivi e stimolati con acidificazioni, fratturazioni ed estensione spari. Stesso trattamento sia per i pozzi di metano che per quelli di Bagnolo in Piano a olio stimolati anche con gas lift. Il giacimento di Correggio è rimasto in produzione fino allo stop del 2002, nonostante la concessione scadesse nel 2017”. Insomma un’area esplorata e ritenuta priva di interesse considerato il rapporto costi/ricavi, come la stessa Eni ha chiarito nella sua analisi finale: “il livello maggiormente produttivo del campo risulta ormai esaurito”. Se Eni ha rinunciato alla Concessione Correggio poiché non vi era rimasto potenziale minerario residuo, perchè oggi altre società avanzano diritti su quell’area? “Evidentemente per speculare – continua Eslisabetta Sala – ma non non ci stiamo. Non siamo disposti a vedere le nostre campagne e le nostre oasi naturali deturpati da trivelle e vasche per contenere i fanghi usati per le perforazioni e rifiuti di certo non ecologici e di dubbio smaltimento”. La levata di scudi contro il permesso di ricerca Cadelbosco Sopra, Fantozza (che comprende i comuni di Fabbrico, Novellara, Rolo, Reggiolo, Guastalla e Campagnola) e Sorbolo (che comprende i comuni di Novellara, Gualtieri, Guastalla, Poviglio, Boretto, Brescello e Castelnovo Sotto) targati Edison, Terracon, Po Valley, Aleanna Resources, San Leon e Hunt Oil nasce dalla volontà di preservare il territorio: “dopo le trivelle arrivano tubi e impianti per la desolforazione provocando ulteriore inquinamento. Oltre a questo e al pericolo di incidenti irreversibili, di inquinamento delle falde acquifere e di sversamento di idrocarburi nei campi agricoli, si aggiunge l’aumento della subsidenza, ovvero l’abbassamento del terreno, laddove nella Bassa colpita dai violenti terremoti del 2012, anche gli impianti di sollevamento acque di Mondine e San Siro – che ci hanno sempre salvato dagli allagamenti nei periodi di forte pioggia (a Moglia e San Benedetto Po) sono fuori uso e gravemente danneggiati dal sisma”. A tutto ciò si aggiunge poi il rischio sismico, in una zona che ha già manifestato più volte negli anni la sua sismicità in un territorio fragile, impreparato ad arginarne le conseguenze e fortemente antropizzato. “Nel maggio scorso – continua Sala – la terra ha parlato. Ed è stata chiara, ha detto basta. Siamo i primi a dire che sul nostro territorio non è mai stato praticato fracking ma è dimostrato che il rischio sismico può aumentare laddove, per estrarre le ultime riserve di idrocarburi, si ricorre a violente stimolazioni (che possono creare micro sismicità) a base di acidi, fratturazioni, pozzi orizzontali, spari con esplosivo nel sottosuolo e iniezioni di acqua in pressione”. Il lecito dubbio che assale i componenti del No Triv è che le società a caccia di briciole di fossili in realtà vogliano stoccare gas nei pozzi dismessi. D’altronde non è un segreto che l’Europa guardi al nostro Paese come a un sito strategico per un futuro Hub del gas… Negli studi sull’impatto ambientale dei pozzi che dovrebbero essere scavati in aree destinate alla coltivazione e in prossimità di un filare di farnie munumentali e dei centri abitati di Canolo (2) e Budrio (1 a due chilometri dall’area di riequilibrio ecologico di via Imbreto) si legge che “qualora dovessero risultare sterili potrebbero essere testati per lo stoccaggio”. Due righine piccine piccine che però non sono sfuggite agli ambientalisti. “Ma come – si domanda Elisabetta – il progetto del campo a gas di Correggio è stato bocciato dal Ministero poiché ritenuto inadeguato alla stoccaggio di metano a causa della presenza di faglie attive che lo attraversano e ora si valuta il via libera a stoccare a due passi da lì? La Regione deve chiarire la sua posizione e dire no a questi progetti”. Certi di vivere in un’area sismica perché nessuno pare tener conto del principio di precauzione? E, ancora, iniettare in pochi mesi e in sovrapressione gas, non provoca stress e disequilibri innaturali nel sottosuolo? Siamo proprio sicuri che tali idrocarburi restino confinati nei siti di stoccaggio? Qual è la natura dei gas che ogni primavera fuoriesce dai terreni? Interrogativi inquietanti, così come le potenziali conseguenze di un eventuale e ulteriore sfruttamento di una terra esausta, la nostra, già provata da anni di trivellazioni. “Noi esigiamo la verità e non ci fermeremo”, conclude Elisabetta Sala.
Jessica Bianchi