L’obiettivo? Convertire l’esistente

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Da settimane la Stroke Unit dell’Ospedale Ramazzini di Carpi è nell’occhio del ciclone. La sua sorte pare ormai segnata: l’unità non verrà né smantellata né delocalizzata, bensì, verosimilmente, riconvertita. Ma procediamo con ordine. La comunità scientifica è concorde nell’affermare che il miglior approccio alla cura dell’ictus cerebrale, sia questo ischemico o emorragico, è rappresentato dalla Stroke Unit. Una struttura organizzativa specializzata per la presa in carico dei pazienti colpiti da ictus, con particolare riguardo per la fase acuta, cioè nelle prime 24/48 ore. La Stroke di Carpi – che consta di 6 posti letto dedicati – è un’area definita con medici neurologi e infermieri altamente specializzati (sono 6 ad alternarsi, uno per turno), dove la riabilitazione del paziente è multidisciplinare e personalizzata. Una diagnosi precisa e una riabilitazione neurologica nella fase acuta dei pazienti colpiti da ictus, dispensate in una struttura specializzata come la Stroke Unit, riducono la mortalità del 3% e le invalidità residue del 5%. Numeri significativi, soprattutto se pensiamo che nell’unità del Ramazzini, l’occupazione dei posti letto è di oltre il 90%, con 300/350 ricoveri all’anno. Ora la rete faticosamente costruita per la cura dell’ictus, alla Corte dei Pio, rischia di andare a gambe all’aria, come è già accaduto per la trombolisi, la terapia farmacologica somministrata durante la fase acutissima dell’ictus ischemico (entro le 4 ore e mezza dalla comparsa dei sintomi) per sciogliere il trombo. La pratica della trombolisi infatti, applicabile solo nel 5/10% degli ictus, e iniziata al Ramazzini nel 2010, si è interrotta col sisma del maggio scorso, e non è più ripresa. Per l’Azienda sanitaria infatti, i numeri troppo bassi di trombolisi effettuate (solo sulle 12 ore diurne, poiché a Carpi, a causa degli scarsi fondi non ci sono le risorse umane necessarie per assicurare anche la guardia notturna) non giustificherebbero i costi. Risultato? Tutta l’Area Nord dovrà confluire, giorno e notte, all’Ospedale di Baggiovara (ricordiamo che Modena è primatista a livello nazionale in termini di trombolisi effettuate). Di fronte al gigante, la bambina è stata abbattuta. Come è ovvio che sia, in tempo di vacche magre. Ma se sulla trombolisi – pratica complessa, tempo dipendente e applicabile a un numero esiguo di pazienti – possiamo chiudere un occhio, la Stroke è tutta un’altra storia. Quel che stupisce è la scarsa lungimiranza delle politiche sanitarie adottate dalla direzione aziendale: se su 32 pazienti ricoverati in Stroke si evita una morte e su 18 si evita un’invalidità permanente, è evidente che, sul lungo termine, il servizio sanitario nazionale sarà meno gravato dagli enormi costi di gestione di malati e invalidi (dal mancato ricovero in centri specializzati all’assistenza domiciliare), con un conseguente e non trascurabile risparmio. Una apparente miopia che lascia però presagire con grande chiarezza quale destino è stato pensato per l’ospedale di Carpi, dai vertici dell’Usl di Modena. In Emilia Romagna è stata infatti avviata la sperimentazione di una modalità alternativa di organizzazione dell’assistenza in ospedale. Un’organizzazione non più articolata in Reparti o Unità operative in base alla patologia e alla disciplina medica, bensì strutturata in aree omogenee che ospitano i pazienti in base alla gravità del caso clinico e del livello di complessità assistenziale. Un’assistenza cioè, denominata per intensità di cura, la quale prevede tre livelli: alta intensità (le degenze intensive e sub intensive), media intensità (le degenze per aree funzionali: area medica, area chirurgica) e, infine, bassa intensità (per pazienti post acuti). Un concetto quello di ospedale per intensità di cura che cozza con la natura intrinseca della Stroke Unit. Ci pare quindi lapalissiana la volontà dell’Azienda: convertire l’esistente. La Stroke Unit del Ramazzini potrebbe quindi diventare un’area di cura di media intensità per le varie discipline internistiche, perdendo, ovviamente, ogni tipo di specializzazione. Con questo sistema si ottimizzano spazi, denari e, soprattutto, risorse umane. Una risposta – opinabile o no – alla carenza cronica di infermieri ma, certamente, uno schiaffo all’assistenza dedicata di quei 350 pazienti che ogni anno vengono ricoverati nella Stroke Unit di Carpi, alle loro famiglie, e a una delle patologie che costituisce la terza causa di morte, la prima di invalidità permanente e la seconda di demenza nel nostro Paese.
Jessica Bianchi