Un’avventura durata 44 giorni. Chilometri e chilometri macinati con la consapevolezza di vivere un’esperienza unica. Straordinaria. Il Team Crazy Italian Horses, formato dai tre carpigiani Francesco Allegretti, Anthony Di Lorenzo e Francesco Perini ce l’ha fatta. Partiti lo scorso 23 luglio da Carpi alla volta di Klenova, in Repubblica Ceca, per partecipare alla corsa non competitiva a fini solidaristici Mongol Rally, sono giunti, 14mila chilometri dopo, a Ulaan Baatar, capitale della Mongolia, a bordo di un’autoambulanza – un Volkswagen del 1988 – acquistata grazie al cuore grande dei carpigiani che i ragazzi hanno lasciato in dono alla martoriata terra mongola. Un viaggio difficile, su strade impervie, dissestate, spesso nel bel mezzo del nulla. Hanno solcato deserti e pianure, superato catene montuose, guadato corsi d’acqua, guadagnandosi la nomina di “meccanici” ufficiali della gara. “Dei 300 team partecipanti – ci raccontano i tre cavalli pazzi – solo la metà è arrivata alla meta. Ogni tanto qualcuno ci telefonava chiedendo il nostro aiuto, perchè si era sparsa la voce che “gli italiani” rimettevano in moto anche le situazioni disperate. A un team scozzese, con cui abbiamo fatto amicizia, si è letteralmente sfondata l’ambulanza, con i pochi attrezzi che avevamo a disposizione l’abbiamo trasformata in un cassonato e i ragazzi sono riusciti a chiudere la gara”. Austria, Germania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Serbia, Bulgaria, Turchia, Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakistan, Russia e Mongolia, i paesi attraversati dai tre indomiti carpigiani che, tonsilliti, antibiotici e parecchi chili persi a parte, non si sono mai scoraggiati, affrontando ogni imprevisto con intraprendenza ed entusiasmo. L’arte di arrangiarsi è stata la loro arma vincente: “durante il viaggio abbiamo avuto numerosi problemi alla barra stabilizzatrice – ricorda Francesco Perini – e agli ammortizzatori: abbiamo fatto rattoppi con lo scotch, ci siamo ingegnati col poco che avevamo”. La preparazione del mezzo, coi suoi 23 anni d’età, si è rivelata fondamentale: “non avendo meccanici a bordo, il restauro fatto al motore prima di partire, in collaborazione con Lumia Motori, ci ha consentito di portare a termine la nostra avventura; non credo ce l’avremmo fatta altrimenti”. Tutto sommato, ride Antony, “ce la siamo sfangata bene”. Tanti gli aneddoti da raccontare, variegata la galleria di personaggi più o meno “strambi” che i ragazzi hanno incontrato sul loro lungo cammino verso la Mongolia. “Sono stati gli incontri casuali che hanno reso del tutto speciale questo viaggio”, spiegano i tre, una spedizione nella quale hanno sperimentato sulla propria pelle “tutti i climi del mondo: dai 50° C del deserto del Karakum in Turkmenistan alle bassissime temperature della catena montuosa dell’Altai, che si estende dalla punta meridionale della Siberia alla Mongolia, dove abbiamo indossato tutti i vestiti che avevamo con noi”. Impossibile non rievocare le strade deserte di Aşgabat, “la città amabile” capitale turkmena, ricostruita negli Anni ‘90 dal regime comunista, “tanto monumentale e marmorea quanto inquietante. Per le vie non si vedeva nessuno, pareva una città fantasma”. Ed è proprio da lì che sono iniziati i guai: “le temperature erano talmente alte che l’asfalto si squagliava al sole. Le strade erano sconnesse e piene di buche: davvero impercorribili”. In Uzbekistan invece un piacevole incontro ha allietato la permanenza a Samarcanda, l’epica città sulla Via della Seta, dove Nadie, una studentessa di italiano, di origini tartare, come un moderno Cicerone “ci ha accompagnati alla scoperta della città”. Poco più lontano invece, nella capitale uzbeka, Tashkent, i tre cavalli pazzi, ne hanno incontrato uno ancora più folle. “Alisher, il proprietario dell’albergo dove alloggiavamo (nel quale svettava un busto bronzeo a sua immagine e somiglianza) ubriaco dal mattino alla sera, ci ha fatti pasteggiare a colazione a forza di vodka e filmini porno. Un’esperienza surreale…”. Numerosi gli ubriachi più o meno molesti che hanno punteggiato il cammino dei tre. Da Sasha, il bandito, che ha cercato di spezzare un polso a Francesco P. in Kazakistan a un alcolizzato divenuto improvvisamente violento in Mongolia, ai tanti camionisti che si fermavano a offrire un po’ di vodka ai viaggiatori italiani. “E te lo dico che bevono – incalza Antony – nessuno sano di mente si metterebbe alla guida su quelle strade: sono troppo brutte”. Ma è ad Amin e sua moglie che i ragazzi preferiscono pensare, la coppia iraniana conosciuta dopo essere rimasti bloccati per ore alla frontiera, che li ha ospitati nella propria casa, manifestando “un raro e gratuito senso di ospitalità” o, ancora, a Gantulga il capofamiglia che ha offerto loro riparo nella sua gher, l’abitazione tradizionale mongola, dove “abbiamo assaggiato un imbevibile latte salato, probabilmente di yak”. E tra macellazioni di pecore, immangiabili formaggi di capra, continui posti di blocco e controlli documentali da parte della Polizia in Asia Centrale superabili a suon di regali e sigarette, parole stentate di russo e inglese e gesti, i tre sono “sbarcati” in Mongolia, terra estrema, stretta tra la Siberia e la Cina, dove l’unico modo di comunicare “era scrivere sulla sabbia i chilometri ancora da percorrere”. Nella patria di Temujin, meglio conosciuto come Gengis Khan, il team carpigiano si è allargato, raccogliendo a Olgii, l’inglese Ben, rimasto a piedi a causa della rottura del proprio mezzo. “In Mongolia abbiamo viaggiato in convoglio, ritrovando due team conosciuti alla partenza, quello scozzese e uno tutto al femminile proveniente dal Sudafrica. Immersi nell’immenso spazio e nel silenzio totale delle distese mongole si ha una sensazione indescrivibile di libertà. Nonostante la stanchezza, la carenza di sonno e di cibo, i giorni in Mongolia sono stati i più belli”. E poi l’ingresso trionfale a Ulaan Baatar: la finish line. “Dopo averla lavata, abbiamo donato l’ambulanza, in perfette condizioni, all’associazione inglese Adventures for Development che la metterà a disposizione del territorio e lasciato la nostra donazione in denaro alla Cristina Noble Children’s Foundation per il Blue Skies Ger Village, che ospita bambini orfani”. E dopo una grande e liberatoria festa i ragazzi hanno ripreso la via per l’Italia, in aereo però…
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