A Carpi c’è un poeta – uno di quelli veri – e non ce l’avevano detto. Sinora. Si chiama Lauro Zuffolini, nella città dei Pio ci è nato e, oltre a mettere la realtà in versi, ha fatto tante altre cose. Laureato in Pedagogia, diplomato in pianoforte, ha insegnato Musica alle elementari e Religione alle medie come primo docente laico della storia carpigiana. Negli anni giovanili è stato leader dell’Azione Cattolica, poi consigliere comunale e della Fondazione Cassa di Risparmio. La vita l’ha portato anche a occuparsi di moda per vent’anni e a svolgere la mansione di dirigente nel settore metalmeccanico. Organista ufficiale della Cattedrale per un decennio, ha composto una trentina di canzoni religiose, alcune delle quali ancora note a livello nazionale ed è cantautore ‘vecchio stile’ di una settantina di brani. Responsabile, per il Comune, dell’inserimento nelle scuole dei bambini immigrati, da alcuni anni è educatore di ragazzi disabili negli istituti superiori. Nel tempo che gli resta, suona il pianoforte nei locali e si esibisce, a volte, come artista di strada, accompagnandosi con una chitarra. Soltanto chi non comprende a fondo quale sia l’intima essenza della poesia potrà chiedersi come, davanti a esperienze di vita così numerose e totalizzanti, Zuffolini trovi anche il tempo di comporre strofe. Anzi, leggendo Quello che sono capace di dire – la raccolta con la quale si è guadagnato segnalazioni di merito al III Concorso Letterario S. Benedetto del Tronto Idea donna nel novembre 2011 e, soprattutto, al XVIII Premio Letterario Internazionale Jaques Prévert di quest’anno – si intuisce come la sua poesia ‘minima’, che possiede tutta la forza dell’osservazione stupita del quotidiano, dei gesti minuti e apparentemente insignificanti, delle emozioni intime e, per così dire, ‘domestiche’, si nutra proprio della vita vissuta e delle molteplici esperienze che il nostro si è trovato ad affrontare. “Ho sempre avvertito l’esigenza di scrivere – spiega – e ho sempre tratto piacere nel farlo, fin dai tempi del Liceo. Così come ho sempre sentito la necessità di eseguire e comporre musica al piano e alla chitarra. Negli anni giovanili dell’Azione Cattolica scrivevo, infervorato di fede, di temi spirituali e biblici; negli anni della politica i temi erano umanitari, sociali ed economici. L’insegnamento della filosofia era la mia vocazione, ma le necessità economiche di mantenere quattro figli mi costrinsero, mio malgrado, a uscire dalla scuola per entrare nel mondo della produzione con un’attività in proprio. Le delusioni politiche e il fallimento del mio matrimonio mi hanno portato a riflettere dal basso, a livello umano, su tutto quanto, oltre le religioni, le ideologie e i sistemi di pensiero, basandomi su di una vita concreta, la mia, l’unica che possa dire di conoscere davvero”. Ed è dall’amarezza che inevitabilmente prova chi ha molto vissuto, molto ricercato e molto riflettuto, che parte il viaggio della raccolta di Zuffolini. “Disinganno e solitudine affrontati con amarezza e ironia – come recita con esattezza la prefazione di Olivia Trioschi – perciò il lettore non si deve aspettare slanci lirici o accese analogie; il tono è volutamente prosastico e dimesso, come se la volontà di sgombrare il campo dalle illusioni investisse anche le scelte stilistiche e linguistiche”. Una ricerca di verità appunto, in un mondo che di certezze, oltre a quella di esistere (almeno questo dato è certo, perché a confermarcelo c’è il dolore) non ne concede più tante – ‘ho bisogno di scrivere/ non so di che cosa/ ho bisogno di comunicare/ non so con chi’ o ancora ‘Prego un dio che non conosco/ e che non potrei conoscere/ che non capisco/ e che non potrei capire/ che non sento/ e che non potrei sentire/ io che non so aggiustare quello che si rompe’. Un itinerario che non può non giungere al riconoscimento della propria solitudine esistenziale, per così dire ontologica, alla consapevolezza dell’incomunicabilità con un Altro – che si chiami dio, madre, padre, amata, prossimo – che è sempre sfuggente, lontano. Segno indecifrabile. Un solipsismo tanto più tragico e tagliente quanto forte, per converso, è avvertita la necessità di attraversare questa siderale distanza – ‘la gatta/ chiede con occhi espressivi e parlanti/ di essere accarezzata/ tende poi la zampina verso di me/ languida e questuante/ per essere accarezzata/e ricevere un po’ di tenerezza/ ma quante volte io/avrei voluto fare la stessa cosa/ verso i miei simili?’. Una poetica dell’io disperso, un io che ci è subito familiare perché, in fondo, è quello di tutti noi. Un io che ricorda molto da vicino – e non è poco – i personaggi di Raymond Carver, incontrati da noi lettori mentre, nelle fredde mattine invernali, spiano l’arrivo del postino dalle finestre in affitto di anonimi sobborghi. Personaggi che, come l’io poetante di Zuffolini, esistono essendo insieme miseri e altissimi, derelitti sbattuti dalla mareggiata che è la vita ai margini dell’esistenza eppure ancora capaci di interrogarsi sulle questioni più alte, sul senso. Ci vuole coraggio, per guardare nello specchio con l’onestà che va riconosciuta a Zuffolini. “Apprezzo Carver, ma molto di più Bukowski, poeta che guarda sé e gli altri con un coraggioso e onesto iperrealismo. Ma non possiedo tutto il suo coraggio nel dire come stanno le cose, come non condivido nemmeno certi suoi aspetti esibizionistici. Sono più timido, riservato e allusivo, anche se certo di essere il più onesto possibile”. Eppure anche in questo inizio d’inverno che è la vita umana per come emerge dai versi di Quello che sono capace di dire germoglia, quasi inaspettato, l’amore: a risvegliarci dal nostro letargico sconforto, dal nostro rassegnato assopimento. La domanda se si tratti di un calore passeggero è in realtà ininfluente, perché già la possibilità di un calore rappresenta un piccolo miracolo, importante come sanno esserlo soltanto i dettagli. E così, paradossale e, in fondo, inspiegabile come la vita, la raccolta si apre proprio nel momento di chiudersi, nell’ultima poesia, ‘Uragano’: ‘uragano amoroso che invece di rompere/ demolire e abbattere/ rimette in ordine/ ripara e costruisce’. Un percorso esistenziale insieme esclusivamente personale e assolutamente collettivo – proprio quello che dovrebbe fare l’arte, ammesso che questa parola abbia ancora un senso autentico nella nostra contemporaneità. Leggerlo vi regalerà perle di rara emozione, come la struggente ‘Genitori e figli e viceversa’: ‘Faccio da padre/ a mio padre e a mia madre/ sono figli ribelli/ che fanno solo/ quello che gli pare/ che obbediscono solo/ quando gli fa comodo/ anche loro/ come i bambini/ non sanno di preciso/ cosa gli fa bene/ e cosa gli fa male’. Quello che Zuffolini non è capace di dire, riesce a dirlo benissimo.
Marcello Marchesini