C’è chi non vuole più pronunciare quella parola e chi non può farne a meno. Terremoto. Chi cerca di rimuoverne il ricordo rischia di amplificarne la risonanza dentro di sè mentre chi è costretto ad averci a che fare tutti giorni, per le conseguenze che ha provocato, si sente esaurito, come se ogni volta, affrontando un nuovo problema, sentisse che non è mai l’ultimo.
Sono passati sette mesi e siamo ancora qui a discuterne perché la gente ne parla. Ovunque. A maggior ragione in questo periodo natalizio che, per alcuni, ha completamente perso di significato. E’ il caso di quella coppia di cinquantenni il cui condominio è stato gravemente danneggiato e collocato in classe E: il loro albero di Natale è rimasto lassù e non possono salire a prenderlo. Si sono adattati inizialmente a una soluzione abitativa di fortuna, poi hanno trovato un appartamento in affitto e oggi sono alle prese con l’ordinanza per l’accesso ai rimborsi nelle cui fitte maglie rischiano di restare impigliati in molti. Chi ha deciso di non aver nulla da festeggiare, ha forse poco da sperare. Alcuni non hanno trovato nemmeno più ragioni per continuare a vivere.
E’ come se il sisma avesse portato via qualcosa a ognuno di noi. La casa, l’azienda, i punti di riferimento sul territorio. Ma non solo, perché siamo cambiati anche dentro, trasformati in adulti con qualche certezza in meno e bambini con qualche paura in più.
Silvia e Orazio, in attesa di effettuare i lavori per rientrare in casa, si sono trasferiti in un appartamento in affitto coi loro tre figli ma è talmente piccolo che hanno dovuto nascondere i regali nel vecchio garage: si fa di tutto per garantire loro il massimo della serenità dopo tante difficoltà.
Sarà comunque un Natale a metà, come le nostre chiese martoriate che restano lì a testimoniare tutte le nostre difficoltà e la fatica di rialzarsi per recuperare la normalità.
Chiese in cui non si può celebrare, ingabbiate e puntellate a testimonianza della precarietà del nostro tempo in cui però c’è chi non abbandona la propria parrocchia e la propria gente ma resta lì, come don Antonio a Limidi, vivendo la precarietà di un camper e quella di uno spogliatoio, pur di poter essere vicino alla gente. Perché di fronte al terremoto siamo tornati all’essenza, alle cose importanti, a un’umanità dimenticata. Quei giorni difficili devono essere anche un importante punto fermo per tutta la nostra comunità perché pare che, da fuori, la percezione di ciò che è accaduto qui in Emilia, sia completamente falsata. Non hanno capito che abbiamo bisogno di aiuti e contributi e, anzi, ci chiedono di fare la nostra parte per il bene del Paese.
Scriveva Sàndor Màrai, prima che la vita gli si accanisse contro: “forse è davvero povera un’esistenza che non sia stata spazzata via, almeno una volta, dal turbine di una crisi come questa, una vita il cui edificio non sia stato mai scosso da un terremoto, travolto da un tornado che fa volare le tegole dal tetto e, ululando, smuove per un attimo tutto ciò che la ragione e il carattere avevano tenuto in ordine”. Purtroppo la vita non ha poi riservato grandi cose allo scrittore ungherese.
Sara Gelli
In foto la Chiesa di Rovereto