Il problema è la scarsa mobilità sociale

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Dell’immigrazione continuiamo ad avere una rappresentazione stereotipata, nonostante tale  fenomeno non sia omogeneo, muti nel tempo e anche a seconda dell’area geografica di provenienza e di quella di arrivo. Se non si fa chiarezza, se non si analizzano i fatti per come realmente sono, il rischio è quello di mettere in campo politiche inefficaci e controproducenti. “Pensiamo spesso agli stranieri presenti nel nostro Paese come a ospiti transitori, che prima o poi torneranno nella propria terra natale, quando invece l’immigrazione è un fenomeno che riguarda l’Italia da decenni e gli stranieri, che rappresentano il 6% della popolazione e hanno sempre più figli nati qui, sono una componente strutturale della nostra realtà, una componente con cui dobbiamo fare i conti considerandola per quello che è, senza pensare che un giorno non ci sarà più”: così si è espressa la sociologa Chiara Saraceno, lunedì sera, davanti alla vasta platea convenuta per ascoltarla nel cortile della Biblioteca Loria, in occasione dell’incontro organizzato dalla Consulta per l’Integrazione dei Cittadini stranieri dell’Unione Terre d’Argine. Dopo il saluto del neo sindaco Alberto Bellelli, la Saraceno ha presentato la serie di dati raccolti nel volume da lei curato Stranieri e disuguali, edito da Il Mulino. “Dai dati emerge come gli stranieri, rispetto allo Stato, siano di gran lunga creditori, perché arrivano qui già adulti, mediamente con una salute migliore di quella degli italiani e non pesano dunque né sulle spese d’istruzione, né su quelle mediche né, per ora, sul sistema previdenziale. Discorso diverso vale per le seconde generazioni  che,  avendo sempre vissuto in Italia, frequentano le scuole”. Anche rispetto all’assegnazione degli alloggi popolari, vero cavallo di battaglia dei partiti che presentano l’immigrazione come una pericolosa invasione, emerge in modo chiaro che “non è vero che gli stranieri hanno accesso alla residenzialità pubblica più degli italiani. Ci sono, è vero, molte più domande, ma alla fine, il rapporto è bilanciato”. Le diseguaglianze di cui gli stranieri sono vittima, dunque, derivano dal fatto che il nostro Paese, per la sua particolare realtà produttiva, attira mano d’opera a bassa qualifica professionale. “Purtroppo importiamo braccia ed esportiamo cervelli, ma il vero problema è che, se negli altri Paesi sviluppati i figli degli stranieri hanno buone probabilità, se studiano e si impegnano, di elevarsi da una condizione di difficoltà socio-economica, l’Italia sembra smentire questo dato. Pare infatti ci sia un tetto di cristallo che anche i figli degli immigrati non riescono a sfondare ma questo, più che alle discriminazioni, è dovuto alle caratteristiche del Paese”. La condizione di disagio degli stranieri ci rimanda dunque, come una cartina di tornasole, a quella che vivono le classi meno abbienti italiane. Il problema alla base, infatti, è la scarsa mobilità sociale: “viviamo in un luogo in cui se so chi sono i tuoi genitori potrò predire in larga parte chi sarai tu, dove la nascita è predittiva rispetto al percorso socio-professionale”. Per far sì che anche gli stranieri possano integrarsi nella realtà italiana, dunque, occorre  risolvere le difficoltà che lo Stivale riserva a chiunque, nella piramide sociale, si ritrovi collocato negli strati più bassi, italiano o no. Durante la serata è intervenuto anche il presidente della Consulta per l’Integrazione Ousmane Cisse: “Occorre distinguere tra coloro che, negli Anni ‘80 o ‘90, sono venuti in Italia per cogliere delle opportunità e i tanti che, oggi, disperati, scelgono di attraversare il mare pur di fuggire da guerre e carestie. Questi ultimi vanno aiutati, perché non si può chiudere la porta in faccia a chi scappa per non morire, ma bisogna anche riconoscere  che, chi è qui da venti o trent’anni  fa parte dell’Italia, vuole integrarsi, paga le tasse e ha la propria famiglia, gli amici, insomma, tutta la vita qui. Noi stranieri – ha concluso Cisse – dobbiamo riprendere la parola, parlare con la nostra voce, non delegare ad altri, anche se in buona fede, la facoltà di farlo al posto nostro”.
 

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