Parigi: la notte più buia

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Quella del 13 novembre sarà ricordata come una delle notti più buie e non solo per Parigi, bensì per tutti noi. A essere colpita a morte è stata la nostra libertà. A essere leso il nostro diritto di stare insieme, godendo del buon cibo, dello sport, della musica. A essere trafitta è stata la nostra sicurezza. Gli attacchi terroristici inferti al cuore stesso dell’Europa, ci fanno sentire fragili. Indifesi. Impauriti. Tutti. L’interrogativo, perturbante, rimane. Uno solo: e ora? Cosa accadrà? A chi toccherà? Ma tutto questo orrore come può essere spiegato, compreso, circoscritto? Siamo di fronte a uno scontro di civiltà? A una guerra all’Occidente? La risposta armata è davvero l’unica possibile?  Lo abbiamo chiesto al teologo e saggista carpigiano Brunetto Salvarani.
Con gli attentati parigini come è cambiata la strategia dell’Isis?
“A differenza degli attacchi del 7 gennaio contro Charlie Hebdo, giustificati da qualcuno secondo cui da parte del settimanale satirico vi sarebbe stata una sorta di provocazione verso Muhammad e tutta una serie di immagini ritenute sacre nel mondo islamico, questa volta il quadro è più chiaro. A essere attaccati sono stati i luoghi del divertimento: dallo stadio al caffè concerto, ai ristoranti… i luoghi della socializzazione. Dall’11 settembre 2001, quando a essere preso di mira fu il simbolo della finanza internazionale, siamo passati agli spazi dell’incontro, dell’intrattenimento e del divertimento. Un cambio di strategia che indica la volontà di andare al cuore della nostra quotidianità con un obiettivo chiaro: infondere un senso di insicurezza e paura (già tratti caratteristici della situazione europea, anche indipendentemente da questi attacchi) e mettere ulteriore benzina sul fuoco su un continente già in difficoltà. Un continente, il nostro, che peraltro non credo sia l’obiettivo ultimo dell’Isis, il cui scopo primario è raggiungere un’egemonia all’interno della Umma islamica, cioè del miliardo e trecento milioni di musulmani che popolano il mondo. Ci troviamo di fronte a quella che i tecnici chiamano fitna: una battaglia interna all’Islam, grosso modo fra universo sunnita e quello sciita che, in questo mondo sempre più piccolo e incontrollabile, si può giocare anche in un campo neutro come l’Europa, ottenendo per di più enorme visibilità mediatica. Anche se tanto neutro non è, considerando il fatto che oltre 16 milioni di musulmani vivono nei paesi dell’Unione Europea, il cui numero è destinato, prevedibilmente, ad aumentare ancora.  Se la risposta a questi attentati si tradurrà in una maggiore chiusura e in un aumento della xenofobia anziché in un investimento sull’integrazione e il dialogo, favoriremo quel brodo culturale e sociale nel quale si alimentano il disagio e quel marcio esistenziale che vede qualche giovane, privo di altre risposte sul senso della vita, dare ragione a questa ipotesi e buttarsi in questa avventura tremenda che, pur non avendo alcuna giustificazione, continua a fare proseliti”.
Quanto è pericolosa a suo parere la dichiarazione di guerra fatta da Hollande e il bombardamento della Siria?
“Questa è la tipica reazione di chi è stato inopinatamente e ingiustificabilmente colpito a morte, ma non credo porti a una soluzione della crisi che, al contrario, necessita di numerose tappe intermedie. Alla legge del taglione l’Europa dovrebbe, per una volta, battere un colpo in termini di strategia unitaria di pensiero, riflessione, difesa comune.  E’ necessario un impegno serio e migliore sul piano dell’intelligence, dell’investimento in buona politica, della scuola, nel reperimento di senso circa il significato di un’Europa unita in termini di coesione sociale… elementi fondamentali che, a cominciare dal nostro Paese, abbiamo trascurato e sottovalutato. La reazione rispetto a quanto accaduto, fatto salvo alcuni elementi giudicati sprezzantemente come buonisti, è totalmente di pancia: non aiuta né a capire, né a risolvere il problema. Erigere altri muri significa creare le condizioni per far sì che altri combattenti, stranieri o personaggi abbandonati a se stessi, trovino nella follia dell’ideologia dell’Isis una risposta al loro non senso di vivere”.
In cosa crede consista la forza della macchina propagandista dell’Isis?
“La sua prima forza ha certamente un carattere simbolico: siamo di fronte a un mondo che, paradossalmente, da una parte si pretende unitario (ndr la umma islamica) mentre dall’altro è estremamente frammentato e quindi l’idea che era già di Al Qaeda, ovvero quella del califfato, fa molta presa, soprattutto in Paesi dai governi dittatoriali o dove i diritti umani sono lesi. L’Isis, poi, si incunea nelle contraddizioni della politica occidentale, a partire dai rapporti che intrattiene con l’Arabia Saudita, il paese meno democratico di quelli del Golfo, nonché il più fedele alleato degli Stati Uniti il che costituisce una contraddizione fortissima. Per vent’anni abbiamo fatto guerre per abbattere dittatori, ma non ci siamo mai sognati di ammettere che la maggior parte degli attentatori dell’11 settembre fosse saudita e non irachena; non scordiamo che l’inizio del dramma in corso fu proprio nel 2002 – 2003 con la guerra in Afghanistan e in Iraq, cui si opposero vanamente Giovanni Paolo II e il movimento pacifista internazionale: un errore colossale dall’effetto domino, basti pensare che quelle guerre non sono mai finite, che in Afghanistan i talebani hanno più potere di prima e l’Iraq è un caos assoluto, per non parlare del successivo errore in Libia. Quella dell’Isis è una macchina propagandista potente che fa leva sugli errori altrui: la novità introdotta dal (cosiddetto) Stato Islamico è quella di aver dato una forza, che si pretende statuale,  al sogno di ripristinare il califfato, sfruttando le carenze del (cosiddetto) occidente e del resto della Umma. Il leader dell’autoproclamato Stato islamico, Al Baghdadi, ha perfettamente compreso come piegare in suo favore l’incertezza e la debolezza derivanti da una crisi che perdura da anni. Non dimentichiamo poi che la forza economica dell’Isis si basa in primo luogo sul petrolio che compriamo noi: i soldi con cui acquistano le armi (che gli vendiamo noi) sono i proventi del petrolio che gli paghiamo tramite intermediari. Dell’Isis sappiamo tutto, non è un oggetto misterioso: ne sanno moltissimo anche gli Stati Uniti e il fatto che, sinora, non si sia voluto attaccarlo seriamente o togliere l’acqua nella quale nuota, (soldi e risorse petrolifere) è il segnale della nostra stessa debolezza. In tutto questo gioca poi la forza simbolica della religione. Religioni che, nella crisi della politica, sono tornate a rappresentare l’unico serbatoio di senso”.
Considerare l’Islam una religione pacifica è un errore?
“Dobbiamo distinguere tra gli ideali di una religione, i suoi punti di riferimento e la loro realizzazione concreta. Il cristianesimo oggi appare come una religione pacifica, ma trecento anni fa cattolici e protestanti si sono scannati e le ultime propaggini di tali guerre di religione si registrarono sino a dieci anni fa nell’Irlanda del Nord. In quanto tale, l’Islam non è né pacifica né guerrafondaia: ci sono interpretazioni che vanno nella direzione di un Islam molto politicizzato e guerresco, ma questo è legato a mille altre cause di carattere politico, storico e al fatto che, spesso, i Paesi islamici siano stati dalla parte sconfitta della storia. Il nodo resta il confronto con la modernità che ci ha aperti a una lettura critica dei testi sacri: l’Islam lo sta facendo con molta lentezza, non dappertutto e solo con determinate minoranze. Il cristianesimo c’è arrivato prima perché era diffuso soprattutto in Europa e negli Stati Uniti che si sono modernizzati prima, l’Islam ci sta arrivando con lentezza e contraddizioni ma non direi mai che una religione in quanto tale è una religione di guerra o di pace. Sono gli uomini e le donne che la interpretano a determinarlo”.
Jessica Bianchi