Ottavia, architetto emergente a New York

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I sogni hanno bisogno di solide basi per realizzarsi e durare nel tempo, come quelle che ha costruito Ottavia Messori, 29 anni di Correggio, durante gli anni universitari a Mendrisio, e che l’hanno portata a lavorare come architetto a Manhattan, nel cuore di New York.

In questa storia la fortuna non c’entra e nemmeno il caso. A fare la differenza sono stati l’impegno e la determinazione con cui Ottavia è progredita nei suoi studi senza mai perdere di vista l’obiettivo coltivato sin da bambina: lavorare un giorno nella Grande Mela.

Prima il diploma al Liceo scientifico a pieni voti, poi l’ammissione all’Accademia di Architettura di Mendrisio dell’Università della Svizzera Italiana e, nel contempo, gli studi estivi in Inghilterra per perfezionare la conoscenza della lingua inglese. Ogni scelta fatta da Ottavia l’ha portata già da giovanissima a compiere un grande passo in avanti nella sua vita.

“Nel 2010 – racconta Ottavia – dopo il secondo anno di Università ho svolto un anno di stage presso Umberto Squarcia Designs a New York. Le possibilità che ho trovato qui, assieme al modo di lavorare e all’apprezzamento che nel mio campo è riservato ai professionisti con un background europeo, hanno dato ancor più forma al mio sogno. E così, dopo la laurea ho deciso di tornarci. Dopo il master, nel 2014, sono entrata nello studio John Fotiadis Architect a New York e dal febbraio del 2015 lavoro da Spivak Architects, che ha sede su Madison Avenue a Manhattan”.

Che genere di studio è?

“Noi che ci lavoriamo lo definiamo una boutique firm, non nell’usuale senso di compagnia che offre una selezione ben precisa di servizi bensì nel senso quasi rinascimentale di “bottega”. Siamo in una quindicina e tutti ci occupiamo di ogni fase dei progetti che seguiamo, con un approccio collaborativo, che dà valore all’esperienza sul campo, dai contatti coi clienti alle visite settimanali dei cantieri. In questi anni io mi sono occupata di progetti diversi per tipologia e scala: residenziali, commerciali, hotel, da residenze unifamigliari a grandi complessi. Li ho seguiti dalle primissime fasi fino alla costruzione finale e, spesso, ne ho curato tutti i dettagli, come la realizzazione di mobili su misura”.

Quali sono i progetti che ti hanno maggiormente appassionata sinora?

“Tre in particolare. La ristrutturazione della Members Lounge del McBurney YMCA, per la stretta collaborazione con questa istituzione e i suoi soci e membri che avrebbero utilizzato lo spazio.

Il progetto di un hotel di 600 stanze nel cuore del Theater District durante il quale mi sono occupata non solo di architettura ma anche di interior design: è stato finora il progetto più grande che ho seguito e mi ha insegnato tantissimo. La realizzazione degli studi di una compagnia di produzione e post-produzione video. E’ stato molto interessante per me il confronto con persone che lavorano in un altro campo creativo e di cui ho dovuto apprendere il modo di lavorare così da progettare spazi che si adattassero alle loro esigenze”.

Quali sono i complessi architettonici della Grande Mela che apprezzi maggiormente?

“Il mio edificio preferito è da sempre il Flatiron Building, ma ogni tanto cammino senza meta e mi innamoro di gemme più o meno note. La mia ultima scoperta sono le Riverside Houses nel quartiere di Brooklyn Heights, da cui sono rimasta affascinata. Un complesso di edilizia popolare costruito nel 1890 che niente ha a che vedere con gli anonimi e spesso squallidi palazzoni, chiamati projects, che sono stati costruiti a partire dalla metà del ‘900 per le famiglie a basso reddito. Sono un’affascinante versione della casa a ballatoio, in stile eclettico, mattoni e terracotta e ringhiere ornate”.

Quali sono le differenze principali nel tuo campo professionale tra Stati Uniti e Italia?

“Credo che qui ci siano un’apertura diversa e più possibilità di crescere professionalmente”.

E invece per quanto riguarda lo stile di vita, quanto è cambiata la tua quotidianità?

“La mia quotidianità si è arricchita di mostre ed eventi, ma in fondo non è cambiata tantissimo, perché ho cercato di portarmela con me. A New York è stato facile stringere amicizie: in questa città per tutti c’è un angolo in cui sentirsi a casa. Si sono “solo” allungate le distanze: un tragitto di un’ora in metropolitana per andare a lavorare oppure per incontrare un amico adesso lo reputo breve”.

Ritornando con i ricordi a quando eri bambina, avresti mai pensato di raggiungere questi traguardi? Quali sono i tuoi obiettivi futuri e dove vorresti realizzarli?

“Ancora oggi, come da bambina, ho un sacco di sogni e per quanto possano sembrare difficili da realizzare, lavoro ogni giorno per costruirne un pezzettino. Qui, poi, ogni idea sembra un po’ più realizzabile”.

Chiara Sorrentino

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