Guido Molinari, un maestro di vita col coraggio di un leone

“Ho sempre saputo, e me ne accorgevo, di essere diverso dagli altri, lo sentivo, non so se nel bene o nel male, e questo lo lascio giudicare agli altri" scrive Guido Molinari, il benefattore che con le sue donazioni ha garantito il potenziamento dell’ospedale Ramazzini, in Una vita, l’autobiografia pubblicata nel 1995.

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Leggendo Una vita, l’autobiografia pubblicata nel 1995, si è catturati dalla personalità di Guido Molinari, il benefattore che con le sue donazioni ha garantito il potenziamento dell’ospedale Ramazzini. A Carpi, lui che era originario di Cervia, si è stabilito che aveva ormai 40 anni dopo essersi lasciato alle spalle l’incredibile avventura africana e gli anni felici di Foggia, di cui scrive “quando sento parlare male dei meridionali ne prendo sempre le difese perché le amicizie che si facevano erano sincere, disinteressate e durature. Ne ebbi vari esempi anche in Africa e ho ancora tanti amici meridionali sparsi per il mondo che dopo tanti ani continuano a scrivermi. Da noi invece, si fanno molte conoscenze, ma vere amicizie, come intendo io, no!”.

Quello che ha costruito a Carpi e quanto la città abbia beneficiato della sua generosità è noto ai più. Negli anni Cinquanta nel pieno del boom della maglieria, partendo da un debito pagato in lana, Guido Molinari come è sua abitudine si fa una cultura specifica del settore e decide di iniziare questo lavoro con la moglie Odette concentrandosi sulla produzione di maglieria in lamé. “I clienti mi chiamavano il re del lamé” scrive nella sua autobiografia. La crescita non conosce sosta tanto che una decina d’anni dopo si rende necessario il trasferimento del Molly da via Spallanzani, la prima sede accanto alla casa, in via Carlo Marx all’angolo con via Cattani dove trovano posto i primi telai Cotton.

Siamo all’inizio degli anni Sessanta ed è grazie all’intraprendenza di Guido Molinari che apre il cinema Capitol, con la licenza che un amico si era portato dall’Africa, sotto allo stabile costruito in angolo tra Corso Cabassi e Viale Carducci; diventa socio dell’Hotel Touring, intuendone le potenzialità e lo riporta in attivo; apre la fabbrica a Moglia; costruisce il Meublé Molly davanti alla Stazione ferroviaria. Dopo i grandi traguardi arriva il periodo della prova più dura: la malattia della moglie Odette e quel voto di compiere un’opera buona, una donazione per ogni anno di vita che fosse concesso alla moglie.

Con assegni a nove zeri arrivano, a partire dal 1990, le donazioni all’ospedale Ramazzini di Carpi che viene fornito di una Tac, di un nuovo reparto di rianimazione all’insegna della più alta tecnologia, il nuovo reparto di Urologia, il litotritore, il nuovo Pronto Soccorso. Non è un caso se la via dell’ospedale, un tempo denominata San Giacomo, cambiò nome e gli fu dedicata.

Da quelle pagine scarne e disadorne emerge molto di più di quanto già non si conosca del Cavalier Guido Molinari soprattutto in riferimento agli anni che precedono il suo arrivo a Carpi: nella sua autobiografia è contenuta la lezione di un maestro di vita. Già molto intraprendente fin da ragazzino quando scolpiva le lettere sul marmo delle tombe del cimitero di Cervia guadagnando fino a due lire per quelle più grandi, Molinari ha vissuto una giovinezza avventurosa in cui emerge tutta la sua forte personalità.

Nell’aprile del 1937, a vent’anni, raggiunge il padre, impresario edile, che in Africa cerca fortuna (costruì anche la cattedrale ad Addis Abeba). “In Italia non vi erano grandi possibilità di lavoro e inoltre – scrive Molinari nella sua autobiografia – aveva avuto dei problemi con i gerarchi fascisti del paese con cui non andava d’accordo”. Guido Molinari abita ad Asmara in Eritrea a 2470 metri. Si concede un primo rientro in Italia l’anno successivo per sposare Odette, la giovane carpigiana conosciuta a Cervia dove la ragazza curava il male alle gambe coi fanghi. Dall’Africa i due rientreranno a Carpi nel 1939 per la nascita delle due figlie gemelle e qui le loro strade si separeranno con dolore. Odette non è in grado di ripartire ma dall’Africa il marito, bloccato dalla guerra, le scrive quasi tutti i giorni: vivranno a distanza per sette anni, fino al 1946, ma il loro amore resterà profondissimo.

In quelle terre che descrive rischiose e affascinanti, infestate di banditi e belve lui aveva il coraggio di avventurarsi per recuperare cataste di gomme ad Assab e organizzare il loro trasporto su camion percorrendo centinaia di chilometri nel deserto, commerciare datteri e tamarindo per ottenere il miglior vino, fare l’agricoltore coltivando pomodori, costruire un ponte a 1.600 km da Asmara affrontando le insidie della natura selvaggia e gli assalti dei briganti. Eppure l’Africa sarebbe stata il suo “paradiso” se solo avesse potuto aver accanto Odette e le figlie.

Al rientro in Italia, “mi sarebbe andato bene qualunque lavoro purché decoroso e con la tanta esperienza che mi ero portato dietro dall’Africa a cui si aggiungeva tanta buona volontà e devo dire anche con il mio ingegno, non mi sarei trovato in difficoltà ad intraprendere qualsiasi attività”. Fu così per Molinari che scrive: “non ho mai dato importanza al denaro perché ho sempre saputo come guadagnarlo”. E ancora: “il guadagno si fa sempre nell’acquisto: sapere cosa comprare e a che prezzo” e che ad ogni affare premette: “mi ero fatto una cultura e cominciai a comprarne e a venderne”.

“Io non  avevo paura per il dopo – si legge nelle pagine dedicate alla vita a Foggia – perché ero sicuro di trovare sempre da lavorare avevo tanta volontà ed energie fisiche e mentali da vendere dico mentali perché in tutte le attività che avevo svolto mi ero accorto di essere arrivato prima degli altri e quando le ho smesse non era mai stato perché fossi andato male, ma solo per trovarne altre più redditizie”.

“Ho sempre saputo, e me ne accorgevo, di essere diverso dagli altri, lo sentivo, non so se nel bene o nel male, e questo lo lascio giudicare agli altri. In questo mio lungo diario ho raccontato tante storie della mia vita e chi legge non potrà mai capire quante siano state le sofferenze, le paure, i dolori fisici, le angosce, le fatiche e i rischi che correvo. Forse non ho saputo descriverli bene e vi assicuro che leggendoli potranno sembrare poca cosa, ma non lo è stato per me viverli”. In quelle pagine duecento pagine è stato capace di restituire intimamente se stesso e la sua solidarietà consapevole in un contesto di piatto scetticismo e apatia.

Sara Gelli

 

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