Cure palliative, sconfiggiamo il tabù della morte per migliorare la qualità di vita dei malati

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il dottor Paolo Vacondio, responsabile del Programma cure palliative dell’Azienda Usl di Modena

Viviamo in una società che rigetta con forza l’idea della morte e che quindi tende ad allontanare il tema del fine vita. Di cure palliative si parla ancora troppo poco e, spesso, questo comporta interventi tardivi che rendono la vita dei malati e dei propri cari ancora più drammatica. 

“Esistono certamente delle resistenze a parlare di queste tematiche, sia tra le persone che tra i professionisti operanti nei vari sistemi di cura. Spesso, infatti – spiega il dottor Paolo Vacondio, responsabile del Programma cure palliative dell’Azienda Usl di Modena – ci ritroviamo a essere chiamati in causa quando l’evoluzione della malattia è molto vicina all’epilogo e quindi il nostro intervento rischia di essere tardivo e limitato nella sua possibilità di offrire sollievo e di migliorare un po’ la qualità di vita dei malati, rendendo questa esperienza meno traumatica”. 

L’IMPORTANZA DI UNA COMUNICAZIONE MEDICO – PAZIENTE FRANCA

Centrale il ruolo della comunicazione medico-paziente: “purtroppo le cure palliative non sono ancora abbastanza conosciute ma tutto diventerebbe più chiaro se provassimo a raccontare cosa accade nelle situazioni di malattia grave, partendo dal momento in cui a una persona viene fatta una diagnosi infausta. La giusta comunicazione, seppur rispettosa delle sensibilità di ciascuno, – prosegue il dottor Vacondio – non dovrebbe evitare o negare dettagli per quanto dolorosi, bensì offrire tutte le informazioni di cui una persona malata – e la sua famiglia – ha bisogno. Se tutti conoscessero la propria patologia e la sua evoluzione allora vi sarebbe la possibilità di sviluppare insieme dei ragionamenti su come viverla. La diagnosi di una patologia non guaribile apre le porte alle cure palliative e alla possibilità che le persone scelgano come affrontare nel modo migliore questa esperienza senza accanirsi nella ricerca e nei tentativi di cura qualora non vi sia alcuna speranza di guarigione. D’altronde l’alternativa è proprio questa: cercare cure rifiutando la realtà o provare ad affrontare una condizione immodificabile. 

Dedicare ogni energia residua, risucchiati da un turbinio di controlli, esami, terapie e ricoveri, toglie al malato la possibilità di fermarsi a pensare a quanto sta vivendo e a valutare possibili scelte diverse”.

I MEDICI NON SONO SOLO GUARITORI

A mettere i bastoni tra le ruote alle cure palliative, oltre a una mancata e puntuale informazione, vi sono anche ragioni di carattere culturale: “i professionisti della sanità – sottolinea il dottor Vacondio – si percepiscono come medici nell’atto di curare per guarire e sentono di perdere il proprio ruolo se accettano un confronto col paziente sulla non guaribilità. Faticano a reggere il proprio ruolo quando questa realtà viene disvelata; la famosa frase non c’è più niente da fare è un’ammissione dal parte del medico non solo di impotenza ma anche di estraneità rispetto a una situazione di fronte alla quale non può esercitare alcun controllo. Per molti colleghi è difficile accettare il fatto di avere un compito che va oltre quello di guaritore, ovvero mettersi al fianco del paziente, accompagnandolo fino agli ultimi istanti di vita”.

IL TABU’ DELLA MORTE

Il tabù della morte fa il resto: “la nostra è una società dichiaratamente tanatofobica. Parlare di malattia grave e inguaribile può disvelare un orizzonte della fine della vita a cui non siamo preparati. Le persone usualmente tendono a fuggire questa idea ecco perché cercano di concentrarsi su altro, come la ricerca di  terapie alternative ad esempio. La nostra natura è di per sé intrinsecamente fragile e destinata alla morte, ne siamo tutti consapevoli ma è un fatto che, emotivamente, non riusciamo a reggere. Ecco perché, quando ci parlano di una diagnosi che prevede l’inguaribilità tendiamo a ritenere che sia meglio non sapere, non parlarne, magari tenendo all’oscuro i nostri cari malati per proteggerli”. Ma è un errore.

L’IMPORTANZA DELLA TEMPESTIVITA’

Intervenire con tempestività, approntando il corretto piano di cure palliative, può fare la differenza in termini di qualità di vita: “avere a disposizione almeno un paio di mesi consente di prendere in carico il malato e la sua famiglia. Di creare una relazione di cura in cui le persone sentono che c’è qualcuno che si occupa di loro, che cerca le soluzioni per farle stare meglio. Le famiglie sono consce di avere degli interlocutori, di non essere sole nell’affrontare il percorso di una malattia grave. Tutti loro sanno di avere a disposizione dei professionisti a cui porre domande e sciogliere dubbi circa le scelte che riguardano il fine vita: dove passare l’ultimo tempo a disposizione, dove morire, se in casa o in un Hospice, – delle persone in carico al Programma cure palliative dell’Azienda Usl di Modena, il 75-80% sceglie di morire tra le mura domestiche mentre quelle al di fuori del programma solitamente si spengono negli ospedali – con chi stare nei momenti finali… Se abbiamo alcuni mesi davanti possiamo permettere alle persone di usufruire appieno dei benefici offerti dalle cure palliative”. 

Bussare alla porte di queste famiglie dove si sta consumando il più drammatico dei momenti, implica sensibilità e tempo ecco perché, prosegue il dottor Paolo Vacondio, “quando il nostro intervento si esaurisce in poche settimane, tutto diventa più difficile”.

IL RUOLO CHIAVE DEI MEDICI DI FAMIGLIA

Una figura chiave, per rendere le cure palliative raggiungibili, è quella dei medici di Medicina Generale: “questi professionisti rappresentano il maggior punto di riferimento per la cittadinanza. Un medico di famiglia che sa leggere un bisogno di cure palliative, può avanzare una proposta che verrà poi perfezionata dal team multidisciplinare formato da infermieri, psicologi e medici palliativisti. Il proprio medico dovrebbe essere l’anello di maggiore prossimità di una catena, il cui compito è quello di offrire ai pazienti la possibilità di ricevere le cure palliative nelle modalità più adatte alle loro esigenze e in tempi consoni”.

Nell’utilizzo pro capite di morfina, indicatore utilizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per definire la qualità della terapia del dolore cronico e il buon funzionamento della sanità pubblica, l’Italia si piazza tra gli ultimi posti nella classifica dei paesi europei ma, sottolinea Vacondio, “il trend è in miglioramento. Certo rispetto ai Paesi del Nord Europa e alla Germania, giusto per fare alcuni esempi, abbiamo ancora molta strada da fare. Per far nascere una cultura e una sensibilità sempre maggiori nei confronti di questi temi è importante il contributo e lo sforzo congiunto di tutti. Quello delle cure palliative non è un albero che cresce solo nel giardino dell’Ausl: tutti, a partire dalle associazioni che si occupano di malati gravi, dovrebbero fare delle campagne di educazione e sensibilizzazione, creando preziose occasioni di informazione”. 

LE CURE PALLIATIVE NON SONO SOLO PER I MALATI ONCOLOGICI – IL VALORE DELLA SCELTA

Quello delle cure palliative infatti è – e sarà – un tema col quale in futuro dovremo misurarci con sempre maggiore insistenza a causa del progressivo invecchiamento della popolazione. Nell’immaginario collettivo infatti si tende a pensare che siano solo i malati oncologici terminali a necessitare di tali interventi ma la realtà è ben diversa. 

“Le cure palliative – commenta il dottor Paolo Vacondio – sono per tutti coloro che hanno una malattia grave non guaribile che impatta sulla loro qualità di vita. Stando alle indagini internazionali compiute sinora, emerge come il 65% delle persone che potrebbero giovarsi di cure palliative non abbiano un tumore ma soffrano di altre patologie: scompenso cardiaco, malattie respiratorie croniche, demenza, insufficienza renale, malattie neuro degenerative… Persone che se incontrano in tempo qualcuno che li faccia ragionare sulle eventuali opzioni di cura possono dichiararsi fortunate!

Pensiamo a una persona che soffre di scompenso cardiaco ad esempio: quando il suo cuore arriverà a funzionare per un quinto della sua capacità, il paziente avrà un’aspettativa di vita inferiore ai cinque anni e il suo quadro clinico sarà irreversibile. Le opzioni saranno quelle di precipitarsi in ospedale ogni volta che gli verrà il fiatone, ricorrere a impianti elettronici in grado di far ripartire il cuore qualora si arresti… ma non sono le uniche alternative e comunque non sono obbligatorie. Idem con la demenza, quando la malattia impedirà al malato di deglutire chi sceglierà, del tutto impreparato e in quel momento drammatico, se optare o meno per la nutrizione artificiale? 

Ecco perchè ribadisco l’importanza dell’informazione e di una comunicazione franca: a fronte di una diagnosi infausta è fondamentale avere qualcuno che ci aiuti a leggere la malattia per poter fare – e comunicare alla propria famiglia – le proprie scelte. Decisioni coerenti col proprio stile di vita e non con un’idea standardizzata di cura. Questi sì che sono incontri fortunati e che consentono a chi sta intorno, ad anni di distanza, di rispettare il volere del malato quando, come nel caso della demenza, non sarà più in grado di parlare ed esprimere la propria opinione”.

COVID E CURE PALLIATIVE

Il Covid non ha fatto arretrare d’un passo l’attività dei palliativisi in provincia di Modena e neanche il loro movimento di opinione.  “L’irruzione della pandemia – spiega il dottor Paolo Vacondio, responsabile del Programma cure palliative dell’Azienda Usl di Modena – ha mostrato a tutti e con forza la nostra fragilità e come la nostra possibilità di controllo sia ben inferiore a quanto immaginassimo. Tutti noi, medici compresi, ci siamo dovuti confrontare con quel senso del limite che è il presupposto cardine delle cure palliative. Nei fatti i palliativisti si sono ritrovati a lavorare al fianco dei colleghi ospedalieri nell’aiutare a controllare i sintomi e a curare la comunicazione coi parenti. Il Covid in qualche modo ha contribuito a mostrare la nostra utilità nei percorsi di cura”. 

Nel 2020 in provincia di Modena sono stati casi seguiti a domicilio 1.600 pazienti, un numero in aumento rispetto all’anno precedente. 

Jessica Bianchi