Scriveva Foucault, nel primo capitolo di Sorvegliare e punire, che tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento “il cerimoniale della pena tende a entrare nell’ombra, per non essere altro che un nuovo atto procedurale o amministrativo”. E tuttavia lontano dalla piazza e dalla sua pubblicità, lì dove le procedure del penale riformato incontrano il corpo del condannato, il supplizio trova una sua esistenza ritirata, entro nuovi spazi, attraverso nuove tecniche della violenza, intrecciandosi con nuovi modi della visibilità. E’ in questa sua transizione, a malapena avvertibile, dall’Antico regime alla modernità matura, e di qui al postmoderno, che la violenza della pena trova una via stretta e quasi occulta, punteggiata dai segni del suo passaggio, che nel tempo breve del secolo scorso si sono andati sedimentando tanto nei meccanismi punitivi che nel loro – e nel nostro – immaginario.
L’età della violenza, il progetto nato dalla collaborazione tra Roberto Solomita, che ha iniziato a scattare e a stare in camera oscura sin da giovanissimo, e la filosofa Anna Montebugnoli, attrice della tesi di dottorato La rappresentazione del supplizio. Per un’archeologia dello spettacolo punitivo, si pone l’obiettivo di sondare il controverso universo della pena, insinuandosi nelle sue pieghe più nascoste. E lo fa attraverso la potenza dell’immagine.
“L’idea – spiega Solomita – è nata nell’inverno del 2021, in pieno lockdown. Volevo dare forma a qualcosa di forte, che mi permettesse di lavorare su un tema, quello della violenza e, in particolare della pena di morte, che da sempre mi colpisce profondamente. Nell’intimo. Quanta sofferenza l’uomo è in grado di infliggere a un altro uomo? Perchè la pena di morte non ha nulla a che vedere con l’impulso. Col raptus. Con la guerra. Al contrario è qualcosa di pianificato con dovizia e applicato con altrettanta cura. In qualche modo racchiude l’essenza della storia della violenza perpetrata dagli uomini sui suoi stessi simili”. L’età della violenza diventa dunque lo strumento attraverso il quale indagare l’animo umano, una sorta di angoscioso viaggio nell’immaginario collettivo, nonché una riflessione sulla società e sui cambiamenti che l’attraversano nel tempo.
Negli scatti di Solomita trovano spazio anche gli animali, vere e proprie allegorie del condannato. Simboli di quanta sofferenza possa essere inflitta su creature rese inermi.
Fredde, taglienti, le fotografie sono costruite indoor. Microcosmi chiusi, asfittici. Come gli spazi della reclusione e della pena. Angoscianti come l’attesa di una morte che giungerà in un momento e in uno spazio già definiti. E se oggi la spettacolarizzazione della macchina punitiva si è via via sublimata, pur continuando a irrompere sulla scena con cruenta crudeltà, in passato il supplizio veniva esibito in modo sfacciato. Pubblico.
Le due serie fotografiche – quella di Solomita e quella di scatti archeologici risalenti a una cronologia distribuita dagli esordi della fotografia a oggi raccolti e commentati da Montebugnoli – che compongono il progetto L’età della violenza tentano dunque di raccontare le differenti stagioni dello “splendore dei supplizi”. Stagioni che si compenetrano, sbattendoci in faccia la più amara delle realtà, ovvero che la violenza continua a permeare le nostre vite, i nostri riti, le nostre piccole quotidianità. Chiaroscuri conturbanti su cui L’età della violenza, divenuta una mostra, ci invita a riflettere.
L’allestimento sarà visitabile fino al 10 dicembre (sabato e domenica dalle 17.00 alle 20.00) presso la Galleria Gate 26A in via Carteria a Modena.
Jessica Bianchi