Il bacino idrografico del Secchia ha un’estensione di oltre 2mila kmq e appartiene al grande sistema acquifero padano. Il fiume nasce in provincia di Reggio Emilia dall’Alpe di Succiso, nei pressi del Passo del Cerreto, in prossimità del confine tosco-emiliano; nel primo tratto scorre incassato fra gole profonde, scavando il proprio letto fra rocce arenacee e, più a valle, fra gessi triassici risalenti a oltre 200 milioni di anni fa. La maggior parte del suo corso, poi, interessa il territorio di Reggio Emilia e Modena, per confluire infine, dopo un percorso di circa 172 chilometri, come affluente di destra, nel Po in provincia di Mantova. Il Secchia periodicamente conquista l’attenzione della cronaca in occasioni di esondazioni o di rotte disastrose degli argini come avvenuto il 19 gennaio 2014 ma nel corso della storia il fiume ha fatto innumerevoli danni tanto da indurre i signori d’un tempo a far innalzare già a partire dall’anno Mille le prime coronelle, opere che nel corso dei secoli divennero veri e propri argini.
Ma cosa sappiamo della storia del nostro fiume?
Ne abbiamo ricostruito un pezzo grazie al prezioso lavoro di ricerca di Lauro Tavernelli del Gruppo Storico Novese.
Plinio il Vecchio nel suo libro III di Naturalis Historia lo chiamava Gabellus, nasce dall’Alpe di Succiso nel Comune di Collagna all’altitudine di 1450 metri contornato da cime alte fino a 2100 metri, sbocca in Po dopo 172 chilometri. Arrivato in pianura il Secchia si ripartiva in diversi torrenti, i nomi altomedioevali di alcuni di loro sono Acqualonga o Luduria, Muclena, Gabellus e Lama. Il Muclena nel 753, stando al documento di donazione del Re longobardo Astolfo al proprio cognato Anselmo, primo abate di Nonantola, passava anche nel Carpigiano. Un altro torrente che partiva dalle sorgive del Secchia di Campogalliano era il Gabellus già citato da Plinio il Vecchio, scaricava le sue acque nelle paludi oltre Novi. Venne poi riattivato dai Pio, Signori di Carpi, per sfruttarne le acque per il funzionamento dei mulini e per riempire le fosse delle mura a uso difensivo, adesso è la fogna principale della città. Lungo il suo percorso nel 1700 a Gargallo e Santa Croce di Carpi c’erano delle cave di sabbia in aperta campagna a segnare il suo antico passaggio (notizia fornita dallo storico e cronista carpigiano don Natale Marri, parroco di Santa Croce, che morì nel 1771). La Lama partiva anche lei dalle sorgive di Campogalliano, segnava il confine tra il Carpigiano e il Modenese e proseguiva tra Quarantoli e Mirandola andando a sfogarsi nelle paludi di Burana. Solo che la Lama tra Cortile e Rovereto venne intersecata, dal fiume Secchia nel suo errabondare, e il suo corso venne interrotto, le acque si scaricavano così nelle campagne tra Cortile e Rovereto. Per evitare l’impaludamento della zona gli uomini di Campogalliano, Panzano e Carpi nel 1275 decisero di fare un collettore che scaricasse le acque a un’altimetria inferiore tra i territori di Novi e Concordia.
Il Castello che i Pio costruirono tra il torrente Lama a est, e il nuovo collettore Lama-Papacina a ovest venne chiamato Castello delle Lame, al plurale, perché, appunto, le Lame erano diventate due, cioè il vecchio percorso interrotto dal Secchia e il nuovo collettore. Quindi nel 1275 il fiume aveva già un solo alveo, il cui corso superiore probabilmente venne deviato dal Comune di Modena verso la città per esigenze loro. Ma torniamo all’anno mille per dire che gli abati di Nonantola furono i primi ad arginare il fiume, concedendo in enfiteusi le loro terre a uomini liberi, purché costruissero gli argini. Secchia passava poi per il centro di Cavezzo, Montalbano, San Felice, Massa Finalese andando a perdersi nelle paludi di Burana anche lui. Solo che nel 1056, parliamo quindi dei primi anni di regno di Matilde di Canossa, un documento nonantolano parla di una rovinosa rotta avvenuta alla Buzzala. Si tratta di una località sita tra San Prospero e Motta di Cavezzo, dalla quale il fiume prese un’altra via dirigendosi verso nord, probabilmente aiutato dalla mano dell’uomo.
Alle acque non restava che prendere la via verso Rovereto e Pioppa e da qui a Concordia e Quistello. Dopo quest’ultima località venne deviato in un ramo abbandonato del Po, che si contraddistingue oggi per la tortuosità del percorso. Il Po nel frattempo si era spostato nell’alveo del fiume Lirone, che è il nome di epoca Romana del fiume Oglio, dando vita a quel ramo del Po-Lirone dal quale in pieno Medioevo prese il nome l’Abbazia Benedettina, che a sua volta diede il nome alla città di San Benedetto Po. A partire dalla rotta della Buzzala del 1056 il fiume arrivò a Rovereto e Pioppa tra il 1222 ed il 1234. Quindi le sue acque per ben 166 anni si riversarono nei campi e in rigagnoli occasionali in quei sei chilometri che dividono la Buzzala da Rovereto.
Poi a partire dal 1500 nell’area delle Lame vennero realizzate le prime coronelle per cercare di domare il fiume. Il Secchia però da allora a oggi ha rifatto numerosi scherzetti.
Ma voi lo sapevate che il Secchia nel corso dei secoli ha cambiato corso?
Ecco cosa scrive Franco Cazzola ne Una risorsa pericolosa: le acque del Secchia nella Bassa Pianura.
Il Secchia è uno dei principali fiumi migranti che scendono dall’Appennino, dato che in epoca storica ha cambiato ripetutamente di letto. Come altri affluenti di destra del fiume Po ha subito una migrazione verso Occidente, ossia ha piegatosi il proprio alveo in direzione opposta a quella in cui dovrebbero andare le acque per forza di gravità. Il corso inferiore del fiume, come ebbe a dimostrare Elia Lombardini, è proprio uno degli esempi più significativi di questa sorta di anomalia. In tempi antichi questo fiume formava infatti una specie di delta che coprirà un territorio da Finale a Carpi. Il Secchia è un fiume che ha cominciato a migrare non appena giunto in pianura e migrando ha letteralmente costruito il territorio su cui sorge la città di Carpi. Il contado carpigiano resta dunque condizionato dalle acque. Come tutto il territorio modenese a nord della via Emilia, che si trova costretto tra Secchia e Panaro, il carpigiano deve soggiacere anche alle alluvioni periodiche dei fiumi che cercano di raggiungere il Po.
Anticamente Secchia e Panaro si sono ripetutamente intersecati nel loro incessante migrare: il Panaro ha occupato l’alveo inferiore del Secchia, quest’ultimo è stato costretto a spostarsi verso Occidente fino a quando, in epoca medievale, tra il 1288 e il 1360, gli uomini riuscirono a trovargli un recapito definitivo e lo condussero artificialmente fino al Po. Ma anche in epoche successive diversi furono gli interventi umani sull’alveo del Secchia per correggere o rettificare la sinuosità del suo corso, troppo pericolose in caso di piene.
Nel loro discendere verso il Po le acque sono state captate dai carpigiani per essere utilizzate a fini industriali e civili. Tra di di esse il corso più importante è il Canale di Carpi o Canale dei Molini, vecchio drenaggio o diramazione del Secchia stesso, adattato dagli uomini a trasferire acqua corrente dentro la città e per mettere il castello al sicuro mantenendo la sua fossa piena d’acqua. L’acqua del canale di Carpi serve così a far funzionare i mulini, a dare acqua ai lavatoi e per molti altri usi, tra cui, a partire dalla metà del XV secolo, quello agricolo.
La minaccia derivante dal fiume si fa sempre più visibile anche in seguito alle notevoli trasformazioni che il territorio emiliano subisce nel corso del Cinquecento. Non è certo casuale che una serie di rotte disastrose del fiume si concentri nei primi decenni del Seicento. Il XVI secolo ha visto la gente arrampicarsi sulle montagne, disboscare e arare pendici, seminare grano anche là dove non sarebbe mai stata opportuna la sua coltivazione, sotto la spinta dell’espansione demografica e di una fame che sembra colpire tutta l’Europa. Senza entrare nel tema del clima e dei suoi mutamenti pare ormai assodato da numerose ricerche che fra Cinquecento e Seicento si manifesta una pulsazione fredda del clima… con una accentuazione degli eventi estremi e soprattutto piogge sempre più violente e prolungate anche nella bassa pianura padana. L’aumento di piovosità mise subito a dura prova le arginature dei fiumi create nei secoli precedenti e condusse rapidamente al collasso tutti i sistemi di scolo e di drenaggio delle opere di bonifica realizzate qualche decennio prima. Stando alle testimonianze scritte dell’epoca, ai primi di ottobre del 1602 la furia delle acque di piena dei fiumi modenesi parve incontenibile. Diverse falle si aprirono negli argini del fiume, alla coronella del Cappellino, nel tratto detto tra i Due Ponti, alla Motta e alle Lame.
I provvedimenti di riparazione degli argini non erano tuttavia cosa semplice sia per la questione relativa alla ripartizione dei gravosi oneri che per i rapporti di potere che si giocavano intorno alla manutenzione del territorio. Una storia che prosegue a tutt’oggi.
Ma veniamo a tempi più vicini a noi…
Un’opera fondamentale per cercare di mettere in sicurezza in nodo idraulico fu la realizzazione, a partire dal 1979, delle Casse di espansione del Secchia, dopo anni di sfruttamento sregolato delle risorse naturali. L’instabilità idrogeologica era stata infatti causata principalmente dalla massiccia e sfrenata estrazione di materiale roccioso dai letti dei fiumi per la ricostruzione delle città nel secondo dopoguerra e per far ripartire lo sviluppo economico urbano. Quando, nel 1973, il Panaro inonda le campagne modenesi per la sesta volta in dieci anni, è chiaro che occorre porre rimedio a questa gestione del territorio. Nel 1976 il Comune di Modena ottiene lo stanziamento dei fondi per la costruzione delle casse di espansione grazie alla collaborazione di tutti i parlamentari della provincia: nel 1981 è quindi inaugurata la cassa d’espansione del fiume Secchia, e nel 1985 quella del fiume Panaro. Si tratta di dispositivi che permettono di far defluire le ondate di piena dei fiumi in superfici appositamente predisposte per evitare il rischio di rottura degli argini o di esondazione nelle città o nelle aree produttive, riducendo notevolmente i problemi arrecati dalle alluvioni.
A cura di Jessica Bianchi