Basta con l’Europa a ‘scatola chiusa’: il banco di prova della riforma del Patto di stabilità

La speranza è che le nostre istituzioni e la nostra classe politica possano tentare il cambiamento delle regole facendo quelle battaglie a cui hanno rinunciato finora. Già il fatto che si stia pensando di invertire il processo affidando ai governi nazionali la proposta iniziale del piano di aggiustamento è un primo passo per responsabilizzare i singoli Paesi, rendendo flessibili le rigide regole che ci hanno penalizzato finora.

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Era ora! Sono trascorsi trent’anni dal Trattato di Maastricht e sembra arrivato il momento di rivedere le regole del Patto di stabilità e crescita: la Commissione europea ha avanzato una proposta di riforma che, superando il vecchio quadro di regole rigide (3% deficit/PIL; 60% debito PIL), va incontro alle esigenze dei singoli paesi, in particolare di un Paese come il nostro, gravato da un elevato debito pubblico, ma che si trova nella necessità di investire per sostenere la crescita, senza la quale non otterrà la riduzione del debito. Va detto che ad alto debito oggi non ci sono solo paesi come l’Italia o la Grecia, ma anche la Francia, e la stessa Germania ha deciso di sforare.

Dopo la pandemia si doveva procedere immediatamente a rivedere i parametri imposti dall’Europa, la cui Banca Centrale non riserva attenzione agli interessi dei cittadini e delle attività produttive all’interno del blocco euro, salvaguardando solo la moneta. L’ennesima dimostrazione del fatto che una banca centrale senza uno Stato ha evidenti limiti.

Tornando alla revisione dei parametri del Patto di stabilità, è un’occasione da presidiare adeguatamente se non la si vuole trasformare in una riforma ‘capestro’, con condizioni svantaggiose come fu trent’anni fa con la sottoscrizione del Patto di Maastricht: al momento dell’ingresso nell’Unione Europea nessun Paese aveva questi livelli di debito ma, sottoponendosi a quelle vecchie regole malate, l’Italia è stata seviziata e pure in modo consenziente. Sospese fino al 2023, in assenza di una riforma, le vecchie regole tornerebbero in vigore nel 2024 e imponendo il rientro al 60% del rapporto debito/Pil comporterebbero manovre di finanza pubblica fortemente restrittive e una pesante recessione.

È sbagliato parametrare preventivamente gli investimenti e definire un deficit: ci sono variabili che non si possono prevedere perché può accadere un terremoto, un drammatico calo demografico, un flusso migratorio consistente, diversi anni siccitosi. Se quando ho bisogno di investire, non riesco a investire, alimento il mio problema e di anno in anno questo determina un peggioramento della situazione. È ciò che è accaduto all’Italia. Il saldo zero è una follia.

I Paesi fondanti l’Ue sono cresciuti meno del resto del mondo occidentale e la redistribuzione del reddito è sempre peggiorata: è il momento di chiedersi perché sono state fatte certe scelte e di cambiarle, non di sostenere genericamente che serve più Europa ‘a scatola chiusa’ avallando eccezioni che ci hanno danneggiato.

La speranza è che le nostre istituzioni e la nostra classe politica possano tentare il cambiamento delle regole facendo quelle battaglie a cui hanno rinunciato finora. Già il fatto che si stia pensando di invertire il processo affidando ai governi nazionali la proposta iniziale del piano di aggiustamento è un primo passo per responsabilizzare i singoli Paesi, rendendo flessibili le rigide regole che ci hanno penalizzato finora.

 

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