Reflection, quando della guerra non ne parlava nessuno

Se non fosse scoppiata la guerra che volenti o nolenti ci sta coinvolgendo tutti, Reflection del regista ucraino Valentyn Vasyanovych, sarebbe probabilmente rimasto negli archivi dei festival. Invece in questa contingenza ha raggiunto frettolosamente pochissime sale del nostro Paese. E’ comparso a Carpi, onore al merito al Cinema Eden, ma al botteghino nessuna ressa. Ecco perchè cercare di vederlo.

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La macchina da presa resta immobile, posta proprio al centro di una platea, nel punto esatto dove l’avrebbe piazzata Méliès davanti al suo palcoscenico su cui mettere in scena i primi fantastici effetti speciali. Ma le analogie finiscono qui. Davanti a questa immobile macchina da presa accadono cose indicibili e molto faticosamente visibili. Sono riprese lunghe, difficili da definire piani-sequenza, perché il movimento è tutto interno, dovuto alle azioni dei personaggi. Movimenti di una calma esasperante che accentuano, se possibile, il già alto grado di violenza. Confesso che dalla proiezione veneziana del settembre scorso sono uscito sconvolto e abbattuto. Non ricordavo di avere mai assistito in passato a qualcosa del genere. La cosa più impressionante era l’estrema formalizzazione della messa in scena. Sembravano inquadrature alla Greenaway, con le simmetrie perfette, il punto di interesse sempre al centro. Insomma uno stile freddo e asciutto per del materiale che grondava sangue e sofferenza. Ma all’epoca (pochi mesi fa, ma ormai lontanissima) sapevo poco di quel conflitto nel Donbass dove nel 2014 ucraini e russi (ignorati dai media e dal mondo) si fronteggiavano in una guerra senza esclusione di colpi per difendere un territorio e una popolazione contesi da opposte ragioni.

Mi accorgo che sto camminando in equilibrio su un sottile confine nel tentativo di non cadere nelle fila degli uni o degli altri. Chissà se è possibile. Ma torniamo a Venezia. Nel poco tempo che ti lascia un festival cinematografico dove le proiezioni si susseguono ininterrottamente da mattina a notte permettendomi di vedere cinque o sei film al giorno cerco informazioni, in realtà cerco conforto. Il giorno dopo su Repubblica neanche una riga, il manifesto pubblica una recensione che trovo appropriata e che condivido, non ho tempo per altri giornali. Così consulto il catalogo. C’è una breve sinossi che riassume la trama: 

Il chirurgo ucraino Serhiy (Roman Lutskiy) viene catturato dalle forze militari russe in una zona di guerra dell’Ucraina orientale e, mentre è prigioniero, assiste a spaventose scene di umiliazione, violenza e indifferenza verso la vita umana. Dopo il rilascio, torna al suo comodo appartamento piccolo borghese e tenta di trovare uno scopo nella sua vita dedicandosi a ricostruire la sua relazione con la figlia e l’ex moglie. Impara a ridiventare un essere umano, a essere un padre e ad aiutare sua figlia che ha bisogno del suo amore e del suo sostegno.

Detto così non sembra niente di strano, la guerra è ormai sullo sfondo. Infatti della guerra non si vede nulla. Se ne vedono gli effetti sulle persone, coloro che la fanno o la subiscono. E in effetti solamente il primo terzo del film tracima violenza, però per i restanti due terzi non ti levi dalla testa ciò che hai visto e subìto e non puoi che riflettere mentre la storia prosegue a Kiev dove tutto appare normale, come sempre. Ci sono in realtà anche due sequenze dove la macchina da presa segue il medico che fa jogging in un bosco di periferia, la prima è frontale, la seconda è di spalle. Sarà che un po’ è notte e un po’ la fotografia è grigia e cupa e nasconde ogni spiraglio o via di fuga, ma anche questi esterni sono piuttosto inquietanti. 

Poi a casa del medico accade un fatto che condiziona l’esistenza della figlia e non solo. Un piccione volando si schianta contro la vetrata del salotto, cade, ma lascia sul vetro al sua impronta.

Sempre dal catalogo riporto questa dichiarazione del regista:

Ho iniziato a lavorare a questa storia ispirato da un piccione che si è schiantato contro la nostra finestra, mentre volava ad alta velocità, lasciando un segno allo stesso tempo bello e orrendo. Mia figlia di dieci anni ha visto tutto: l’impronta precisa delle ali, la traccia di sangue lasciata dall’impatto della testa, le piume attaccate al vetro. Nei giorni successivi, eravamo turbati da quanto era successo”.

L’autore racconta un fatto insolito: è raro che un colombo sbatta contro un vetro ingannato da un riflesso che lo illude che il cielo continui ininterrotto. A me però è capitato che una tortora abbia attraversato l’intero mio appartamento da sud a nord approfittando delle finestre aperte al caldo dell’estate.

Il film era cominciato in uno strano ambiente dove un uomo e una donna stanno guardando di là dalla vetrata un ampio salone con delle colonne dove due “eserciti” vestiti di bianche tute di carta si fronteggiano con proiettili che colpendo lasciano macchie colorate che raggiungono anche la vetrata. 

Poi la “battaglia” finisce e da una tuta bianca sbuca una bambina che è la figlia della donna, che ora convive con l’uomo che non è suo padre. Poco dopo li raggiunge il medico: il padre ed ex marito. Intrattengono rapporti civilissimi, anzi, i due uomini rimasti soli sembrano anche amici, bevono insieme, allungano il caffé con la vodka. Senza svelare particolari importanti, dirò soltanto che i due uomini si incontreranno anche nelle violentissime sequenze successive. E quel loro incontro influirà pesantemente sul confronto e il dialogo tra il padre e la figlia dopo l’episodio del piccione, cioè per il resto del film. Li vediamo infatti seduti su dei blocchi di cemento in quello che sembra un cimitero ma non lo è, che accendono un fuoco con rametti di legno. Poi ci pongono sopra una scatola di cartone che dovrebbe contenere una bibbia che il padre ha raccolto tra i rifiuti. Un piccolo rogo che evoca una pira umana e richiama quanto mostrato con fredda precisione in precedenza.  Andare con la mente ai crematori nazisti non è una forzatura, almeno per me. 

Davanti a quel piccolo rogo padre e figlia si interrogano, riflettono sul significato dell’esistenza, sull’anima, sul corpo, sulla credenza della vita dopo la morte. Parole che attingono alla religione che portano lo spettatore a ritornare a quanto visto all’inizio quando il medico prigioniero slega un soldato torturato e in fin di vita e lo adagia sul freddo tavolo di cemento, osceno altare di tortura. E lo fa con un movimento lento e dolcissimo che rimanda a una delle tante deposizioni di Cristo dalla croce. In fondo il tema del film non è la guerra, il tema è la riflessione invocata dal titolo. Una riflessione a tutto campo, oserei dire universale. 

Se non fosse scoppiata la guerra che volenti o nolenti ci sta coinvolgendo tutti, Reflection del regista ucraino Valentyn Vasyanovych, classe 1971, sarebbe probabilmente rimasto negli archivi dei festival come la maggior parte dei film che vi partecipano o proiettato solo in qualche cineclub della Rive Gauche parigina o del Village newyorkese e non avrebbe mai visto la luce di una proiezione pubblica italiana. 

Invece in questa contingenza ha raggiunto frettolosamente pochissime sale del nostro Paese. E’ comparso a Carpi, onore al merito al Cinema Eden, e con molto coraggio sono tornato a vederlo perché dato l’insolito shock l’avevo rimosso, forse cancellato. Volevo rinfrescarmi la memoria, forse valutarlo “alla luce” delle conoscenze di oggi. Mi aspettavo la ressa, la folla al botteghino. Invece la prima sera c’erano tre spettatori, il gestore mi informa che due sono usciti dopo mezz’ora (probabilmente non hanno retto lo sguardo). La seconda sera oltre a me c’era un solo spettatore, rimasto fino alla fine. Adesso posso scriverne e citare ancora il regista: “La bambina e l’adulto si aiuteranno a vicenda a comprendere questo mondo bello e crudele, così simile al segno lasciato dal piccione sul vetro”. Chissà se sul catalogo lo scriverebbe ancora. 

Ivan Andreoli

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