Dove si rifugiavano i carpigiani durante la seconda guerra mondiale? La mappa dei rifugi antiaereo

Per quanto riguarda i rifugi pubblici, il Comune di Carpi presentò apposite richieste nel novembre 1944 alla Prefettura di Modena per modificare e adibire a rifugi gli interni di edifici pubblici, come la Torre della Sagra, il Torrione degli Spagnoli, la Torre del Passerino, e lo stesso Palazzo comunale. E ancora ve ne erano uno nella Torre del Duomo e un altro nella Torre di S. Francesco. Molti quelli privati, nel Parco delle Rimembranze, nei prati adiacenti di S. Nicolò si sono scavate trincee o riparo schegge.

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1945 - Famiglia Tirelli, Adolfo con la moglie Giovannina, davanti all’entrata del rifugio anti-bombe che si trovava nell’ampio orto – giardino fra via Trento Trieste e via Catellani

Da settimane infuriano venti di guerra e davanti alle immagini del conflitto in Ucraina e in particolare di quelle di donne e bambini che dormono nelle metropolitane per tentare così di sfuggire alle bombe e alla distruzione, mio nonno continua a scuotere la testa.

A riaffiorare infatti sono ricordi che lui, così come molti altri, avrebbe voluto dimenticare e che invece sono ancora lì, vividi e potenti. Scolpiti nella sua memoria. “Avevo 13 anni quando è scoppiata la guerra e me lo ricordo come fosse ieri. Impossibile dimenticare le sirene, la paura… a tredici anni cerchi di infischiartene ma il cielo – e non solo – era diventato nemico. E allora ci si nascondeva per cercare di mettersi al sicuro dai bombardamenti. Al riparo. Chi in cantina, chi in rifugi di emergenza e altri ancora in rifugi antiaerei pubblici”, mi racconta il nonno. 

Parole che hanno catalizzato la mia curiosità e allora, grazie alle ricerche e alle trascrizioni di Mauro D’Orazi e delle storiche Lucia Armentano e Annamaria Ori abbiamo tentato di tracciare una sorta di mappa, seppur incompleta, dei rifugi antiaereo sorti a Carpi durante la seconda guerra mondiale.

Nella trascrizione fatta da Anna Maria Ori della Cronaca di Carpi di Don Ettore Tirelli sugli anni della Guerra si legge: “30 Luglio 1943 – Finalmente! Dopo tre anni di guerra la sirena comincia a funzionare, così d’ora in avanti Carpi potrà sentire gli allarmi – ovvero che il nemico aviatore si avanza – e lasciare l’abitazione per rifugiarsi in campagna”.

Alla fine del 1944, scrive Mauro D’Orazi nel suo libro Piccole storie  di guerra  a Carpi e dintorni 1943-1946, “la guerra volge al peggio, il fronte si avvicina e le incursioni aeree sono sempre più frequenti: logico quindi che un po’ tutti si sentano minacciati, e cerchino protezione in ripari sicuri in caso di bombardamenti e mitragliamenti nemici. Molti di questi rifugi per cui sono state concesse le licenze forse non furono mai completati: ma allora, con l’incubo dell’avanzata del fronte e le incursioni di aerei nemici più volte al giorno, anche solo la possibilità di avere un rifugio vicino doveva essere vista come una mezza garanzia di salvezza”.

Per quanto riguarda i rifugi pubblici, il Comune di Carpi presentò apposite richieste nel novembre 1944 alla Prefettura di Modena per “modificare e adibire a rifugi gli interni di edifici pubblici, come la Torre della Sagra, il Torrione degli Spagnoli, la Torre del Passerino, e lo stesso Palazzo comunale. Le richieste vengono accolte e il Comune appaltò i lavori necessari. Venne assunto personale addetto alla custodia e alla pulizia dei rifugi pubblici, che doveva, tra l’altro, garantirne anche l’illuminazione, vista la richiesta alla ditta Dante Ferrari di due chili di olio per alimentare le lampade”, scrive ancora D’Orazi. Versione avvalorata dal resoconto di Don Ettore Tirelli che riporta: “18 Marzo 1944 – Si è ultimato il Rifugio nei sotterranei del Torrione del Castello. È il più grande che si abbia, ed è sorto – se vogliamo – abbastanza in ritardo. Altri piccoli rifugi si hanno: uno nella Torre del Duomo; un altro nella Torre di S. Francesco; un quarto – capace di 100 persone – si ha pure nel castello presso l’Uccelliera. Molti i privati. Nel Parco delle Rimembranze, nei prati adiacenti di S. Nicolò si sono scavate trincee o riparo scheggie”.

Anche i privati potevano costruire rifugi previa autorizzazione del Comune. La casistica in città è abbastanza varia come rivela D’Orazi: vi erano “proprietari che presentavano direttamente la richiesta, e possiamo immaginare che si trattasse di persone che risiedevano nello stesso stabile in cui desideravano costruire il rifugio” ma vi erano anche richieste avanzate da inquilini che chiedevano “l’intervento del Comune per obbligare il proprietario, che evidentemente si rifiuta, a costruire il rifugio”.  Le case del centro storico a quel tempo erano estremamente popolate: “a Palazzo Bonasi – Gandolfi, ad esempio, in corso Fanti, abitavano più di ottanta persone”.

Solitamente dopo l’intervento mediatore del Comune, i proprietari acconsentivano alla costruzione dei rifugi, “ma per un edificio in via Trento e Trieste, il cui proprietario risiedeva a Voghera, non fu possibile alcuna mediazione” si legge nelle pagine de Piccole storie  di guerra  a Carpi e dintorni 1943-1946.

Rifugi che però non sempre purtroppo erano sinonimo di salvezza. Si legge ancora nella cronaca di Don Ettore Tirelli: “28 Gennaio 1945 – Allarme dalle 8¼ alle 8½; dalle 9.50 alle 11.25; dalle 12¼ (pericolo dalle 13½ alle 15.35) alle 16.20; dalle 18.55 alle 7 del 29. Nel rifugio di casa Gibertoni (a destra prolungamento di via del Monte, casa d’angolo di viale Carducci) mano assassina uccide barbaramente sei persone: la madre del proprietario [Vincenzi Cita], la maestra Virginia Morandi ved. Sacchi, maestra Sacchi Anna Maria, Poli Maria convivente colle due maestre, gli sposi Martinelli Secondo [e Gatti Domenica]”.

Ma come erano fatti questi rifugi “casalinghi”? Il carpigiano  Mario Orlandi racconta a Mauro D’Orazi di come nel 1944 le incursioni aeree alleate fossero diventate frequenti e quindi “lo zio Mario, stanco di correre quotidianamente ai rifugi pubblici non proprio vicini, pensò bene di costruirsene uno domestico per tutte le famiglie della casa. Lo fece nell’orto, probabilmente in base a prototipi dettati dal Ministero. Si trattava di una casetta seminterrata, di due metri per quattro circa di pianta, alta due metri e mezzo, costruita tutta in tavole e pali di legno, accessibile tramite scaletta esterna e ricoperta da uno spesso strato di terra, forse ottanta centimetri / un metro. Sui lati lunghi c’erano due panchette di legno molto strette. In pratica, se una bomba fosse caduta nei paraggi, la struttura avrebbe potuto riparare convenientemente i rifugiati. Ma se una bomba l’avesse centrata in pieno, ti saluto… Credo abbia funzionato solo l’estate e una parte dell’autunno successivo. Al collaudo dell’inverno, dell’umidità e del freddo, non resistette. Così si passò a un secondo rifugio, ricavato al piano terreno di casa, utilizzando circa metà dell’androne di ingresso (chiamato da tutti “la loggia”). Anche per questo si utilizzavano solo pali e tavole di legno: puntelli per sostenere il volto di copertura; la casa aveva due piani sopra oltre a un sottotetto praticabile – e rinforzare le pareti laterali. Anche qui furono collocate delle panchine ai lati lunghi. La sua concezione si basava sul presupposto, tutto da verificare, che un eventuale crollo della parte superiore del fabbricato, si sarebbe smorzata sopra a questa cellula stagna. In questo senso, non subì, per fortuna, un vero collaudo. La bomba che centrò la casa, il giorno della liberazione, procurò danni solo al secondo piano”.

A differenza della città, in campagna i rifugi coperti erano proibiti e dopo l’inasprirsi della lotta partigiana, il 3 ottobre 1944 venne ordinato e reso noto con manifesti e con la pubblicazione sulla Gazzetta dell’Emilia, di demolire quelli esistenti per impedire che dessero rifugio ai partigiani. “Sono consentite – scrive Mauro D’Orazi – solo delle trincee scoperte, dopo aver ottenuto il permesso con richiesta scritta, e dopo il controllo delle Brigate nere”. Salvo alcune eccezioni… a dimostrazione di come “le autorità amministrative avessero a cuore la sicurezza della popolazione, accogliendo nei limiti del possibile e con solido buon senso le richieste di costruzione di rifugi” per i quali era individuato “un responsabile che doveva garantire all’autorità che il locale fosse usato solo per il solo scopo di riparo, che non vi si conservavano armi e che non vi si nascondevano ribelli, o banditi, come sono chiamati i partigiani”.

Jessica Bianchi

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