Contrariamente all’informazione ricevuta a Venezia circa il titolo italiano (12 settimane) del film vincitore del Leone d’Oro, L’evenement esce nelle sale italiane il 4 novembre col titolo La scelta di Anne. Opera seconda di Audrey Diwan, tratta dal romanzo autobiografico della scrittrice Annie Ernaux. Già il fatto che le cose che la pellicola ci mostra siano frutto di esperienze vissute conferisce alla messa in scena un valore aggiunto che costringe lo spettatore a “subire” insieme alla protagonista il dramma di un’ingiustizia perpetrata non solo sul corpo di una donna, ma sull’intera persona, sul sentimento, lo spirito, l’intelletto, il desiderio e la speranza. Assistere a questo film farebbe enormemente bene a quella schiera di medici (uno c’è anche nel film) che con una “obiezione di coscienza”, non sempre sincera, ostacola, quando non boicotta, nel nostro Paese ma non solo, l’applicazione di una legge che dagli Anni ’70 del secolo scorso tutela le donne nel loro diritto di autodeterminazione. Il richiamo al presente, di questa vicenda accaduta in Francia nei primi Anni ’60, quando anche là l’interruzione volontaria di gravidanza non era legalizzata, è necessario proprio perché i diritti, anche se conquistati (a fatica e dolorosamente) vanno continuamente difesi e pretesi. E’ di questi giorni l’attacco che le donne subiscono in Texas e in Polonia, non proprio paesi culturalmente arretrati. Il maggior pregio del film è quello di astenersi da qualsiasi “commento” e di seguire la progressione degli eventi col solo punto di vista della protagonista, perché solo lei è legittimata a decidere del proprio futuro e della propria vita.
Già visibile anche il film di Pedro Almodovar che ripropone in situazioni molto diverse se non diametralmente opposte il tema della maternità. Madres Parallelas ci fa incontrare due donne destinate a partorire nello stesso giorno e nello stesso ospedale. Penelope Cruz è Janis che già dal nome rubato alla Joplin ci lascia intravedere un personaggio “rock”, anticonformista, vivace e scoppiettante, gioiosamente ansiosa di portare a termine una gravidanza molto gradita ma non cercata. Milena Smit invece interpreta Ana che quella gravidanza assolutamente inattesa, non la entusiasma affatto. Ma la vicinanza della compagna di “ventura” la conforta molto e le due donne stringono un’amicizia che si promettono di ravvivare anche dopo il lieto evento. Sarà una storia lunga la loro e certamente non priva di sorprese, che non è il caso di anticipare. La bellezza del film è innegabilmente legata al dialogo, allo scambio che queste due donne sanno donarsi reciprocamente. Due esperienze a confronto, due visioni della vita da ricongiungere, due storie da inserire nel contesto più grande della storia di un Paese che ha sopportato una guerra civile sanguinosa sfociata in una dittatura durata decenni. Ed è proprio il personaggio più maturo, anche anagraficamente, quello che guida la conservazione della memoria e la ricerca di una verità che fatica ad affermarsi anche nel nuovo ordinamento democratico. Personaggio tuttavia intermedio perché anch’esso soggetto a un’altra madre che arricchisce il quadro di figure femminili che sono una costante nella poetica di Almodovar. Per restare in “ambito” femminile è già in programmazione anche The last duel di Ridley Scott, alla cui origine c’è un fatto realmente accaduto nel tardo Medioevo francese. Messa in scena spettacolare, da vero colossal, ingigantita dalla computer graphic che consente di disegnare paesaggi e scenografie gigantesche e magniloquenti. Ed è su questi sfondi che si imbastisce la rivalità tra due cavalieri: Jean de Carrouges e Jacques le Gris che si contendono la stessa donna. E quando lei ne sposa uno, l’altro non trova di meglio che stuprarla. Non ho svelato nulla perché la violenza, nota fin dall’inizio, è il motore del film. Infatti la narrazione seguente, ricalcando modalità già ampiamente usate fin dai tempi di Rashomon di Akira Kurosawa (1950), ci mostra gli avvenimenti raccontati alternativamente dai tre personaggi. Fino all’epilogo che consegnerà nelle “mani di Dio” la verità e la soluzione della storia. La scelta di regia però ci porta a considerare non solo il parallelismo delle tre versioni, ma quello col presente. Un presente dove ancora sono le donne a figurare anche quasi come complici anziché solo parti lese per la violenza subita. A testimonianza che un medioevo sopravvive indisturbato attraverso i secoli e i pregiudizi fino ai giorni nostri.
Vedere per credere anche La scuola cattolica il film di Stefano Mordini sulla terribile vicenda di Donatella Colasanti e Rosaria Lopez in quel del Circeo nel 1975 e il memorabile processo per stupro che ne seguì.
Segnalo infine Ariaferma, opera tutta al maschile di Leonardo di Costanzo. Forse il miglior film della 78° Mostra di Venezia, ed è un peccato che non fosse in Concorso perché avrebbe strafigurato e meritatamente ambìto a qualche premio. I suoi pregi sono notevoli e molteplici. Innanzitutto la storia che sebbene di ambientazione carceraria è lontana mille miglia dai film visti fin qui, specialmente quelli americani, traboccanti violenza e soprusi. Poi le interpretazioni di due grandissimi talenti: Toni Servillo e Silvio Orlando, rispettivamente il comandante delle guardie e il riconosciuto leader dei detenuti, affiancati da un cast molto efficace nel disegnare figure complementari ed opposte equamente distribuite tra carcerieri e prigionieri. Tra loro, molto rilevante, il ritratto di un ragazzo dal destino più incerto di tutti. La scrittura, fatta di dialoghi serratissimi ed essenziali, di silenzi calibrati e pesanti, la fotografia che illumina i più piccoli spazi del racconto anche quando l’oscurità la fa da padrone. Tutti elementi costitutivi di un’atmosfera sospesa dove il passare del tempo è proporzionale al crescere della suspence. Una suspence davvero magistrale nel dare credibilita al titolo, quell’ariaferma che congela e blocca il futuro sperato e lascia il campo alla riflessione.
Ivan Andreoli