Va bene la domiciliarità, ma i caregiver non sono muli da soma

Il Covid ha duramente colpito la popolazione fragile e, in particolare, gli anziani ospiti delle strutture dove, il contesto di vita comunitaria e l’inadeguatezza degli spazi, ha favorito la rapida diffusione del contagio, mietendo numerose vittime. Un modello organizzativo, quello delle strutture residenziali per anziani, che dev’essere completamente ripensato, anche in favore di servizi di prossimità tarati sui differenti livelli di autonomia delle persone, preservando il più possibile la domiciliarità.

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Il Covid ha duramente colpito la popolazione fragile e, in particolare, gli anziani ospiti delle strutture dove, il contesto di vita comunitaria e l’inadeguatezza degli spazi, ha favorito la rapida diffusione del contagio, mietendo numerose vittime. Un modello organizzativo, quello delle strutture residenziali per anziani, che dev’essere completamente ripensato, anche in favore di servizi di prossimità tarati sui differenti livelli di autonomia delle persone, preservando il più possibile la domiciliarità. Di questi complessi temi si è parlato durante il webinar L’impatto sociale del Covid-19 sulle strutture protette: ripensare i servizi per anziani e caregiver familiari, organizzato dalla Cooperativa Anziani e non solo in occasione dell’undicesima edizione del Caregiver Day. 

Le professoresse Francesca Corradini e Maria Luisa Raineri del Centro di Ricerca Relational Social Work dell’Università Cattolica del Sacro Cuore hanno condotto una interessante ricerca, commissionata da Cisl Emilia Romagna, sull’impatto della pandemia nelle Cra, attraverso la narrazione di operatori, ospiti e familiari. Uno studio che è andato ben oltre i numeri per soffermarsi invece sul “sentire” di chi, quella battaglia impari, l’ha vissuta sulla propria pelle. “I sentimenti che sono emersi – spiega la professoressa Francesca Corradini – sono stati la confusione, la paura, la consapevolezza di affrontare un pericolo infido, devastante e sconosciuto. In un contesto che mutava continuamente, gli operatori, soprattutto nella fase iniziale, ci hanno raccontato di aver combattuto la morte a mani nude”. L’irruzione della pandemia ha generato “forti vissuti di impotenza e sensi di colpa oltre al timore di contagiare i propri famigliari. Un’esperienza traumatica che ha comportato per molti operatori problemi di insonnia, tachicardia, attacchi di panico e il bisogno di un supporto psicologico o farmacologico”. Una sofferenza che ha colpito duro anche i famigliari degli ospiti, costantemente allerta e attaccati al telefono con “l’angoscia di ricevere brutte notizie, di non poter salutare né toccare il proprio caro”. Totalmente impreparate a gestire un’emergenza di queste dimensioni, le strutture che sono riuscite a reggere meglio sono state quelle “che hanno potuto contare sulla consulenza specialistica delle aziende sanitarie per attivare i protocolli necessari per arginare il contagio. Misure applicate con intelligente discrezionalità” spiega Corradini, poiché le Cra non sono ospedali e la loro logistica non si presta certo alla compartimentazione. Gli operatori nell’emergenza hanno acquisito “nuove e maggiori competenze. Abilità che in futuro dovranno essere valorizzate e messe a sistema. E’ necessario aprire tavoli di confronto – ndr dalla politica ai gestori, alle Ausl – per lavorare insieme e supportarsi reciprocamente”.

Nonostante l’isolamento forzato a cui sono state costrette le Cra e la loro progressiva sanitarizzazione, conclude Corradini, “il pensiero unanime è che le strutture protette siano ancora indispensabili per far fronte alla non autosufficienza grave. La domanda – e la sfida futura – è come continuare a preservare spazi di care, ovvero la loro parte sociale”. “Il distacco dai famigliari – ha aggiunto la professoressa Maria Luisa Raineri – ha provocato effetti gravissimi sulla salute fisica degli anziani. Si sono registrati numerosi casi di depressione, anziani che hanno smesso di alimentarsi, tanto da mettere a rischio la propria stessa vita. Forse alcuni sono addirittura morti di solitudine… In questo terribile scenario gli operatori, per la prima volta, si sono trovati a fare da ponte tra ospiti e famiglie per mantenere un canale di comunicazione aperto. Si sono presi cura della relazione pur non avendo ricevuto alcun tipo di formazione in tal senso. Il tema della comunicazione è un nodo critico e per il futuro è importante individuare del personale dedicato che gestisca la comunicazione in modo proattivo”. 

E’ tempo di riflettere rispetto a quanto vissuto, elaborarne le conseguenze e, anche alla luce di quanto previsto nell’ambito delle missioni salute e inclusione sociale del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza recentemente approvato dal Parlamento, di ripensare i servizi per la popolazione anziana.

“Il Covid ha reso chiaro come l’attuale assetto delle strutture sia inadeguato ai bisogni degli ospiti. Quello della domiciliarità è un principio importante ma non è sempre praticabile e di certo non rappresenta un’alternativa in grado di coprire l’intero fabbisogno di assistenza. Sarebbe importante mettere in campo un ventaglio di servizi modulari e di prossimità tarati sui diversi livelli di non autosufficienza”, conclude Raineri.

Federico Boccaletti, vicepresidente di Anziani e non solo

Ma la crisi ancora in atto, “saprà trasformarsi davvero in un’opportunità?”, si domanda Federico Boccaletti, vicepresidente di Anziani e non solo. “Quale forma organizzativa si vuole dare alle Cra? Le vogliamo rendere case-famiglia con camere singole o verranno ulteriormente sanitarizzate? Saremo in grado di sfruttare il potenziale tecnologico, che va bene oltre una videochiamata, per migliorare cura e assistenza? Dove sono le risorse?”. Perché non dimentichiamo, come ha aggiunto Filiberto Zecchini, coordinatore del Dipartimento Politiche Sociali della Cisl Emilia Romagna che la “sostenibilità economica è il vero convitato di pietra” ogniqualvolta si discute di queste tematiche. “Avevamo già sul piatto la revisione del sistema di accreditamento e il ripensamento dei modelli di sviluppo della rete socio sanitaria per rispondere a bisogni che si sono profondamente modificati. Il Covid – commenta Fabia Franchi, responsabile del Servizio Assistenza territoriale Regione Emilia Romagna – ci ha sbattuto in faccia il fatto che non possiamo più aspettare e che dobbiamo agire secondo una logica di coprogettazione. Dobbiamo rivedere il sistema, consci che una persona non può essere accolta in struttura solo quando la sua situazione è ormai precipitata ma accompagnando gli anziani con l’obiettivo di preservarne i livelli di autonomia il più a lungo possibile. Creando insomma dei percorsi di avvicinamento alla non autosufficienza, dal co-housing agli appartamenti protetti ad esempio”.

Una cosa è certa, come ha giustamente rilevato Fausto Viviani, portavoce del Forum terzo settore Emilia Romagna, non possiamo “illuderci che una volta passato il peggio della pandemia, tutto torni come prima. Dobbiamo lavorare sulla filiera della buona longevità. Tutti dobbiamo farcene carico perchè investire sulla qualità dei singoli servizi rappresenta un passo avanti ma è necessario metterli a sistema, ciascuno con le proprie competenze”.

Per costruire risposte utili, aggiunge Lalla Golfarelli, presidente dell’Associazione Caregiver Familiari Emilia Romagna, “dobbiamo strizzare al massimo le opportunità a livello prossimale. Sappiamo quanti sono gli anziani soli? Possiamo prevedere i tempi e le quantità di strutture aggiuntive di cui necessitiamo? La domiciliarità deve tener conto delle vite dei caregiver perchè chi si prende cura non è un mulo da soma. In campo vi devono essere dei servizi di supporto a loro: centri diurni ma anche spazi in cui gli anziani possano semplicemente stare in compagnia e trascorrere un po’ di tempo…

I caregiver devono essere considerati degli attori veri, ricordo che nella prima fase della pandemia sono stati gli unici a restare operativi, così come le Cra, su tutto il resto dei servizi, il nulla! Un momento davvero vicino alla tragedia. Dobbiamo pensare al futuro partendo da ciò che è accaduto per costruire qualcosa che regga, qualsiasi cosa accada. La pandemia ci sfida ma per reggere anche in futuro occorre individuare le risorse, dosarle con cura e renderle continuative. Il Recovery plan va bene, ma è solo un inizio, una sorta di gigantesco avvio di impresa, poi però i bilanci pubblici dovranno farsi carico dei costi di continuità. Qual è il limite dell’azione sociale e quando entra in campo quella sanitaria? Dobbiamo capire come redistribuire la spesa. Quali strumenti possono accompagnare gli anziani da quando stanno bene a quando progressivamente si troveranno in condizioni di significativa non autosufficienza? Quale musica suona la pubblica amministrazione? Chi fa cosa e con quale impegno finanziario?”, domande a cui occorre rispondere con urgenza.

“Da undici anni insistiamo sulla necessità di formulare un nuovo patto di cura. Dentro alle casa residenza anziani – sottolinea Alberto Bellelli, responsabile Welfare dell’ANCI dell’Emilia Romagna – vi sono delle complessità di tipo sanitario, non nascondiamoci dietro al Covid, lo sapevamo da ben prima della pandemia. Eppure il sistema di accreditamento ha riallocato nelle Ausl le varie figure sanitarie che prima operavano all’interno delle strutture…  Oggi dentro alle Cra ci sono persone che fino a dieci anni fa erano in lungodegenza in ospedale: rimettere mano ai criteri di accreditamento è quantomai urgente per farci così rientrare delle figure sanitarie. Le azioni messe in campo per affrontare l’emergenza potrebbero poi diventare strutturali in una logica di prossimità: le Usca che hanno permesso interventi rapidi di continuità terapeutica e diagnostica, non possono forse diventare uno strumento di supporto alla domiciliarità? Stesso discorso vale per gli Osco, ospedali di comunità nati perchè le Cra logisticamente non sono in grado di compartimentare i locali per arginare i contagi: strutture ponte preziosissime tra domicilio e ospedalizzazione. Per non parlare di un uso massivo della telemedicina”. Insomma, conclude Bellelli, “è tempo di mettere in fila una serie di riforme, dalla gestione del Fondo della non autosufficienza all’Asp, ai criteri per l’accreditamento; oltre a far pace coi soggetti privati, il cui contributo è essenziale nell’affrontare una sfida, quella dell’invecchiamneto della popolazione, che deve vederci uniti”.

Jessica Bianchi