La strana compagnia del Bar della Tazza d’Oro
di Mauro D’Orazi
Un bar, un refugium peccatorum
Se vi fosse capitato negli ultimi 20 anni di passare all’inizio del Portico di Corso Alberto Pio davanti al Bar Tazza d’Oro di Donato (detto da qualcuno anche Tazio con riferimento al nome del locale, verso le due del dopo pranzo, avreste potuto osservare, seduti con le carte in mano, un vivace, sboccato, sbraitante e rumoroso gruppo di antichi giovani carpigiani, un tempo veri leoni dominatori della Grande Piazza e da anni quasi esiliati da crudeli decisioni di sadiche menti municipali, nella angusta ridotta di questo luogo apparentemente senza tempo.
Questo gruppo di bravi ragazzi, di cui anche io faccio parte e che frequento con gusto e divertimento, erano costantemente impegnati dal lunedì al venerdì per due orette a misurarsi senza pietà e remissione alla briscola in 5 (detta anche briscola a chiamata o briscolone): una curiosa variante del noto jeu de cartes, che ha nella sua fase iniziale un piccolo drammatico “giallo “: chi mai sarà il compagno di colui che ha chiamato la carta e ha imposto il seme della briscola. Si gioca rigorosamente senza soldi, non ce n’è più bisogno, viste le numerose e vistose cicatrici di ormai lontane ferite da gioco d’azzardo, praticato dai vari esponenti del gruppo nelle più svariate forme e intensità, in anni dove temperanza e moderazione erano virtù sconosciute.
Oggi si lotta solo per l’onore di dimostrare di saperci fare, di essere i migliori, di essere chiaroveggenti nei possibili sviluppi del gioco.
Lo spassoso teatrino delle quasi finte (ma non troppo, poi …) baruffe è sempre in scena: battute, canzonature, sberleffi, soprannomi, severe sgridate a chi sbaglia, ecc… In questo ambito, il tempo scorre molto molto lento, sembra non dover passare. Tutto il gruppo possiede una consapevole e disillusa rassegnazione di chi sa cogliere l’ineluttabile, ma nel contempo si ostina ancora a voler vivere il Carpi diem della gioventù. Qui, alla Tazza d’Oro, sopravvive forse l’ultima testimonianza, l’estremo baluardo autentico e genuino di carpigianità in Centro Storico: una significativa e sentita, ma, ahinoi, solo pallida eredità di una antica tradizione di ustarìi, fumiini, cafè d ’na vòolta.
Chi transita nei pressi di questo locale, fra urla, schiamazzi e lazzi vari, può sentire non di rado perentori e bizzarri ordini: “Ṡóoga la Bereniice!” … “Gioca la Berenice!”… cioè… gioca il due di denari; oppure: “Mètt éggh mò un brisculèin ind al cuul!” che significa buttare, per stringente necessità, un’inutile briscola più bassa di una dominante già sul presente sul tavolo.
Tutto cominciò negli anni ’90, quando un “Caffè Teatro” da sempre accogliente e tollerante, asilo e luogo di libera e multiforme frequentazione … dall’operaio all’industriale, dal tagliatore di muri, al geniale scrittore locale, volle raffinarsi, vincere il provincialismo e passare di grado.
Extra omnes! Fuori tutti ! Fu il grido deciso e poco rispettoso del valore delle antiche tradizioni e della personalità dei numerosi cartai con i calli ai polpastrelli delle mani a forza di girare e rigirare dei mazzi. Fu il grido spocchioso, e alla fine quasi fallimentare, di una nuova Carpi spersonalizzata che non riuscì mai poi a convincere e a decollare completamente, ma che certo ebbe l’effetto deleterio e negativo di contribuire a distruggere molti usi e costumi (assieme alla chiusura della Piazza) di un passato per altro oggi sempre più difficile da vivere e da difendere.
Questo gruppo di profughi disperati senza più patria, trovò tetto, sedie e accoglienza alla Tazza d’Oro da Donato, un ragazzo del ’53 di origine lucana e che era conosciuto e ben voluto da tutti, avendo sempre lavorato come cameriere in Piazza, inizialmente al Bar Roma.
Le origini del Bar della Tazza d’Oro
Nel 1974, in principio, i tre mitici suoi colleghi del Bar Roma, il Golden Team, con Gianni, Alcide e Valerio, rilevarono la Tazza d’Oro, forse il bar più strategico di Carpi da Loredano e Anna Maria Malagoli. Questi a loro volta lo avevano preso da un rappresentante di caffè di Modena della Segafredo, che lo aveva aperto nel 1969 proprio alla fine del Portico del Grano, dove prima c’era una drogheria.
Allora le grandi ditte di distribuzione di caffè attuavano questa polita di espansione: trovavano la zona giusta e il posto, contrattavano le mura e poi mettevano su un bar con persone esperte. Quando il locale veniva lanciato, lo cedevano a una famiglia che lo gestisse, naturalmente oltre i soldi della cessione, vincolavano anche le future forniture di propri prodotti.
Gli esperti della Segafredo nel ’68 mandarono i loro uomini per le analisi preventive.
In quel tempo sotto ai portici di Corso Alberto Pio passavano nei giorni di punta quasi 5.000 persone al giorno. Scegliere quella dislocazione fu dunque… più che logico.
Nel 1969 il bar si era subito posto all’avanguardia con prodotti innovativi per Carpi, una città da sempre conservatrice e lenta ad apprendere le novità. Loredano portò per primo i tramezzini (che oggi tutti conosciamo) confezionati con pane speciale bianco e morbido e farciti con una speciale maionese fatta in loco tutti i giorni e un’insalata russa. Il pane arrivava da Modena, finché non si giunse a un accordo col vicino Forno Sacchi, che sperimentò e produsse la nuova varietà.
Dopo il cambio di gestione, l’anno successivo, nel ’75, anche Donato fu della partita, inizialmente come cameriere / barista. Ma gli eventi della vita a un certo punto fecero sì che, dopo qualche tempo, i vari soci si sfilassero via dalla gestione del bar e che lo stesso passasse al solo Donato e alla sua famiglia: la moglie e i due figli.
É a questo punto che il gestore fu contattato da Mauro Orlandi e Fabiìn Carretti, ambasciatori plenipotenziari del manipolo di fuggiaschi dalla Piazza. Strinsero solennemente il sacro patto dei due tavoli: tutti i giorni, salvo il fine settimana, dalla mezza alle due e mezza, questi erano riservati a loro e al gioco delle carte. Si partì con i tradizionali cotecchi, briscole e tresette, poi prevalse la briscola a 5. Questo gioco, infatti, comporta il coinvolgimento di un giocatore in più e consente scambi dinamici continui. Insomma è più difficile annoiarsi, anche perché la regola basilare del silenzio assoluto, che si dovrebbe tenere durante questo tipo di partite, venne subito assolutamente abolita. Ognùun al póol ciacarèer cum al vóol… cum a gh pèer! (ognuno può parlare come vuole… e come gli pare).
Il Mucchio Selvaggio
Il Mucchio Selvaggio era ed è composto da una fauna eterogenea, ognuno di noi conosce gli altri da una vita e sa virtù, difetti, atteggiamenti e reazioni, prima ancora che un al véera bòcca! (apra bocca) Esso è una coagulazione di varie e antiche provenienze che andavano dai reduci del bar Roma, e del Dorando ad altri ex del Liceo. Io penso che in natura non si sia mai visto un tale concentrato di “Campioni del Mondo” del passato o in carica e qualcuno pure del futuro. Il lettore si chiederà di cosa… campioni, di quale specialità… bhèee… non ha nessuna importanza di cosa, l’importante che lo fossero o che dichiarassero di esserlo, scatenando la risentita rivalità altrui per sopravanzarli. Più uno afferma di essere forte e più l’altro si impegna e gode a batterlo.
Questo agone permanente è uno dei segreti fondamentali del bar e del successo di un locale (a parte quello, sempre gradito, di aver un super gnoccone scollato che si china leggermente in avanti a servirti un buon caffè bollente).
Il bar è così! Un surrogato, un simbolo rappresentativo della violenta lotta per la vita, per la sopravvivenza, per il successo, per il ruolo preminente di alcuni sugli altri, per infligger le più crudeli mortificazioni ai deboli e agli sconfitti.
La presa in giro e l’ umiliazione, che a turno tocca a ogni componente, deve essere messa in conto fin dall’inizio e per il permaloso caratteriale ci saranno davvero bocconi amari da mandar giù.