Le cicatrici provocate dalla pandemia non sono solo fisiche. Anche il nostro mondo interiore è profondamente segnato dall’emergenza sanitaria che stiamo vivendo da oltre un anno. Paura, ansietà, senso di impotenza, incertezza verso il futuro… sono sono alcune delle emozioni che hanno travolto la nostra quotidianità, mettendo a dura prova la “tenuta” psicologica di molti.
Un equilibrio che, per chi ha contratto la malattia e per coloro che hanno perduto un proprio caro a causa del Covid, è stato letteralmente sconvolto.
Tra le conseguenze più subdole di questa patologia infatti vi è senza dubbio il fatto di doverla affrontare in solitudine, lontani da chi si ama. Una lotta che si combatte senza il sostegno della carezza o dell’abbraccio dei propri genitori, dei propri figli, dei propri compagni. Cari tenuti lontani e privati della possibilità, in alcuni casi, di pronunciare l’ultimo saluto, di accomiatarsi e dire addio a chi amano. Una situazione che sta generando sempre più quadri di ansia e di depressione.
“I pazienti ricoverati – spiega la dottoressa Paola Dondi, responsabile della Psicologia Ospedaliera dell’Azienda Ospedaliero Universitaria di Modena – ci riportano un vissuto centrato su temi traumatici già noti: il distanziamento, la separazione dai propri cari e, sempre di più, registriamo in loro la presenza della paura della malattia e del contagio anche in termini di senso di colpa poiché si considerano l’origine, l’avvio della contaminazione all’interno delle proprie famiglie. Un elemento, questo, che va trattato con straordinaria delicatezza dal punto di vista psicologico, soprattutto nei più giovani”.
L’incertezza pandemica, prosegue la dottoressa Dondi, “sviluppa uno stato emotivo collettivo che non favorisce né l’elaborazione della malattia né quella dei lutti, viviamo dunque in una sorta di dimensione di lutto sospeso e di elaborazione sospesa della malattia: elementi che non ci aiutano a fare una programmazione significativa degli interventi di cui dovranno farsi carico anche – e soprattutto – i servizi collocati al di fuori dell’azienda ospedaliera e che dovranno assolutamente attrezzarsi a una messa in opera di trattamenti maggiormente specializzati e finalizzati alla risoluzione dello stress emotivo pandemico”.
La situazione è per così dire “a doppia cerniera: da un lato il fatto che ora ci sia una rappresentazione della malattia e delle sue cure ha reso più sicure le persone che sanno cosa potrà loro accadere – prosegue Dondi – ma, d’altro canto, tale consapevolezza ha aumentato il livello di tensione anticipatoria e di senso di attesa traumatica”.
I dati nazionali che i Servizi di Psicologia si stanno scambiando, conclude la responsabile, “ci consentono di osservare come la presenza di questa dimensione definita di lutto e di elaborazione di malattia sospesi facciano riferimento a una situazione del tutto straordinaria ed eccezionale dell’uomo. Ci ritroviamo a vivere una malattia inaspettata, rispetto alla quale fino a poco tempo fa non si sapeva nulla, e non riusciamo, anche in caso di guarigione, ad avviare un processo di risignificazione, poiché ci ritroviamo immersi in un’atmosfera di malattia aperta in quanto la pandemia non ci permette di fissare un limite temporale che, per il processo di elaborazione psicologica, è fondamentale”.
J.B.